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La Serie A nell’orgia del gol, la brutta fine dello 0-0

In undici giornate di campionato, 110 partite e 338 gol segnati, si registrano solo quattro 0-0

Pubblicato:05-11-2021 18:16
Ultimo aggiornamento:05-11-2021 18:25

portiere calciatore pixabay
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ROMA – Brera le chiamava “squadre femmine”. Le nazionali religiosamente votate alla difesa, l’Italia e l’Uruguay. Caste per tradizione. Campasse ancora oggi se la vedrebbe con la questione di genere, e col calcio più prolifico di sempre. Lo “zerazero”, l’etichetta tignosa del buon calcio sterile d’una volta, è sbiadita. In undici giornate di campionato, 110 partite e 338 gol segnati, si registrano solo quattro 0-0: gli ultimi due risalgono nientemeno che alla seconda giornata. Un’eternità fa, col metro del calendario sincopato.

Nell’orgia realizzativa, fatta di difese traballanti e ‘rigorini’, va perdendosi l’eresia della bellezza del calcio per sottrazione. L’abusata storia dello “0-0 risultato perfetto”, intestata per i posteri al campione olimpico del ’36 Annibale Frossi. Lo stilema dell’equilibrio esemplare nel meno generoso di tutti gli sport. Il gol ne è sì l’obiettivo ontologico ma la sua negazione è il valore aggiunto. C’è tutta una retorica in via di estinzione: “le reti inviolate”, i “punteggi ad occhiali”. Come Frossi, appunto, che con gli occhiali ci scendeva in campo.

Ma è proprio per la rarefazione dell’evento che il gioco puritano, duro e insopportabile, riflette una nuova luce, quasi vintage. Lo 0-0 è il terzo incomodo nell’esito finale: non esiste solo la vittoria di una delle contendenti, ma anche la riuscita dei piani d’attacco e difesa, in un elastico che può non rompersi mai terminando in pareggio. Non vince nessuno, non perde nessuno, non segna nessuno. E’ un feticcio: supporre che non per forza tutti riusciranno a far gol ha a che fare col peccato, col proibito. Il voyeurismo del fallimento altrui. L’idea anche un po’ moralista che nello spirito del gioco offesa e difesa possano avere pari dignità.


Ha perso, lo “zerazero”. Rovinato da decenni di reprimende ideologiche: se non c’è gol non può esserci estetica, identità, partita. Brera definiva “cicala” l’Olanda di Cruyff, prima che il Milan di Sacchi e i tre punti per la vittoria sbattessero il mostro fuori dalla prima pagina. Lo 0-0 disinnesca la nuova droga del pallone tv: gli highlights.

Ci siamo assuefatti ad una versione incontinente del calcio: non importa quanti gol prendiamo, l’importante è farne uno in più. Un bengodi disordinato. Un profittevole circo. Tanto è vero che i telecronisti d’oggi si riempiono la bocca di “cleen sheet”, e li sottolineano con l’euforia dell’impresa. Per quanto s’affannino a urlare non riescono invece a placare l’inflazione dei gol a ripetizione.

Nel ventennio 80-90, l’età dell’oro della Serie A, si viaggiava ad almeno un paio di 0-0 a schedina (sì, la schedina…). Nella stagione 1988/89 ci fu addirittura un picco di 58 0-0 in 306 partite. Alla fine degli anni 90 si era già sotto la fatidica soglia del 10%.

Ora il luogo comune recita che “non ci sono più i difensori di una volta”. Un mantra alimentato proprio dai “difensori d’una volta”, che ora salgono in cattedra e bacchettano i giovani: non sanno più marcare, dicono. Ma non è che – citiamo Enzo Bearzot – “l’attaccante segna sempre per un errore altrui, segna perché compie un gesto contro il quale non puoi far nulla”. Sgranando il rosario di tabellini affollati come le autostrade ad agosto, restano sotto mano le statistiche di Milan e Napoli. Che sono prime per tanti motivi, ma soprattutto perché hanno le difese meno battute: quella di Spalletti ha subito solo 3 gol. Hanno anche gli attacchi più produttivi, ma quello è un dato che finisce mediato dalla folla.

Con lo 0-0 è evaporata anche l’umiltà “provinciale” delle piccole, che modestamente badavano a coprirsi al cospetto delle grandi e che ora invece rivendicano un’autorità tattica, la personalità del “proprio gioco”. Finendo spesso a deflagrare, scomposte in linee altissime, infilate di qua e di là. Perché no, lo 0-0 no, pare brutto. Il calcio è l’ultima vittima dell’apparenza.

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