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Violenza donne, Veltri (D.i.Re): “No ad albo nazionale delle associazioni”

E contro la proposta di legge a firma Versace-Gasparri (Forza Italia) aggiunge: "I centri antiviolenza non sono servizi e devono essere gratuiti"

Pubblicato:05-11-2020 18:52
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 20:11

violenza donne pugno
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ROMA – “Non serve un albo nazionale delle associazioni che si occupano di violenza contro le donne. Serve, come andiamo ripetendo da tempo, la revisione dell’Intesa Stato-Regioni del 2014, per rendere i criteri che definiscono cos’è un centro antiviolenza rispondenti alle disposizioni della Convenzione di Istanbul, ovvero luoghi che accompagnano la donna in un percorso che inizia con l’accoglienza telefonica e finisce con il recupero della sua vita in piena autonomia”. Questo il commento di Antonella Veltri, presidente di D.i.Re-Donne in Rete contro la Violenza, all’agenzia di stampa Dire sulla proposta di legge a firma Versace-Gasparri (Forza Italia) illustrata ieri alla stampa in Senato. P

resentata l’1 ottobre alla Camera, la proposta prevede l’istituzione di un albo delle associazioni contro la violenza sessuale e di genere presso il Dipartimento per le Pari Opportunità, della figura dell’operatore contro la violenza sessuale e di genere (Oscv), oltre a iniziative di supporto per l’assistenza alle vittime. “La proposta di legge- continua Veltri- indica come unico criterio qualificativo per l’iscrizione all’albo ‘la disponibilità a collaborare con la Regione, con i Comuni e con le aziende sanitarie locali e ospedaliere ai fini della promozione di iniziative di informazione e di prevenzione per una cultura contro la violenza sessuale e di genere, nonché della sensibilizzazione dell’opinione pubblica in materia, cosa che i centri antiviolenza della rete D.i.Re già fanno, laddove ci siano volontaà politica e risorse finanziarie per attività di questo tipo”.

VELTRI: “CENTRI ANTIVIOLENZA NON SONO SERVIZI E DEVONO ESSERE GRATUITI”

I centri antiviolenza, chiarisce Veltri, “non sono servizi, né le operatrici che vi lavorano sono qualificabili con i criteri di un ordine professionale. La pdl propone di istituire una qualifica professionale per legge, qui chiamata ‘operatore specializzato di centro antiviolenza-OSCV’, al maschile: un grave, ma non casuale temo, disconoscimento delle donne che hanno dato vita e animano i centri antiviolenza da quando sono nati. La proposta di legge chiede, inoltre, alle università di istituire dei corsi post laurea per formare tali OSCV, senza tenere conto dell’esperienza maturata in questo campo da centri antiviolenza, come i centri della rete D.i.Re, che da oltre trent’anni investono tempo, risorse e competenze e collaborano con tante istituzioni universitarie, proprio per formare le proprie operatrici e assicurare i necessari tirocini, prima dell’ingresso effettivo nelle equipe”.


La presidente della rete nazionale dei centri antiviolenza, poi, sottolinea che i cav, “come stabilito anche dalla Convenzione di Istanbul, devono prestare la loro opera in maniera gratuita a tutte le donne. Con questa legge si cerca surrettiziamente di trasformarli in servizi privati a pagamento – seppure dopo un anno dall’avvio del percorso di supporto e in base all’Irpef versata dalle donne accolte – venendo meno al criterio di accesso universale e gratuito che traduce l’impegno istituzionale e pubblico contro la violenza sulle donne”. I centri antiviolenza della rete D.i.Re, ricorda la presidente, “sono costantemente impegnati per promuovere un cambiamento culturale che decostruisca le basi della violenza maschile contro le donne, fenomeno strutturale connaturato all’impianto patriarcale con il quale si è evoluta la società che è stato il femminismo a mettere in crisi. Tale impegno non si piega alla normatività di un albo nazionale né alla sua impostazione da servizio sanitario. Abbiamo già visto questa tendenza in atto in alcune Regioni- osserva Veltri-, come ad esempio la Lombardia, che riconosce come prestazioni dei centri antiviolenza solo il supporto legale e psicologico, e lo retribuisce solo se collegato al disvelamento del codice fiscale delle donne accolte: un atto che contraddice uno dei capisaldi della metodologia dei centri antiviolenza D.i.Re, ovvero l’anonimato delle donne supportate, senza contare i possibili rischi per la loro sicurezza. Questa proposta- conclude- rappresenta l’ennesimo tentativo di calcare la scena pubblica di chi non ha idea di cosa sia la violenza alle donne né tanto meno i centri antiviolenza”.

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