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ROMA – “I lavori sono ancora in corso ma ci ha stupito anche altro: ad esempio il ristorante ‘Meloni’ in riva al porto e poi le camionette di polizia e carabinieri, come se i padroni lì fossimo noi, come ai tempi di Mussolini”: Damiano Borin, attivista dell’organizzazione Ya Basta, è appena stato in Albania. Per la precisione a Shengjin e Gjader, le località scelte per due nuovi centri per persone migranti. La loro apertura, posticipata più volte dal giugno scorso, è prevista da un accordo siglato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal suo omologo albanese Edi Rama. Nelle strutture dovrebbero essere accolti migranti approdati sulle coste italiane e poi trasferiti dall’altra parte dell’Adriatico. Ed è in Albania che, stando al piano, saranno esaminate le loro domande di asilo ed eventualmente avviate le procedure di rimpatrio nei Paesi di origine, se considerati “sicuri”.
Borin, 41 anni, è impegnato a 360 gradi contro i Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). “Sia nella mia regione, l’Emilia-Romagna, che nel resto dell’Italia e dell’Europa” sottolinea in un’intervista con l’agenzia Dire. “Sono lager dove le persone sono trattate in modo disumano: vanno chiusi dappertutto perché sono incompatibili con Paesi democratici”.
Torniamo però all’Albania. “Sulla strada che collega Shengjin a Gjader abbiamo visto camionette della polizia e dei carabinieri” riferisce Borin. “Ci è sembrata una cosa coloniale, con un controllo italiano del territorio albanese”. Il riferimento va cercato nell’accordo bilaterale, che per i centri prevede una giurisdizione italiana. Quello di Ya Basta è però stato lavoro di testimonianza in prima persona, con pubblicazioni anche video sui social network. “Volevamo capire cosa accade e raccontarlo” sottolinea Borin. “Abbiamo parlato con i portuali, che dicono di business e possibili grandi affari, anche se poi abbiamo incontrato lavoratori delusi dal fatto che gli impieghi disponibili avessero stipendi ‘albanesi’, dunque più bassi che in Italia”.
Ci sono poi paradossi o almeno qualcosa che paradosso sembra. “A Gjader la corrente elettrica viene e va e pure l’acqua manca spesso, al punto che tanti in casa tengono botti per accumulare scorte, quando ci sono” racconta Borin. “Eppure il progetto italo-albanese, con un appalto di gestione del valore di ben 133 milioni di euro, prevede la costruzione di impianti fognari, elettrici e idrici destinati solo ai centri per migranti, dunque senza alcun beneficio per le comunità locali“. Un’ultima battuta sul ristorante ‘Meloni’, che compare nei video diffusi da Ya Basta. Fotografie della prima ministra adornano l’ingresso e la sala interna del locale. “L’imprenditore albanese che ha avuto l’idea è convinto di riuscire ad attirare turisti e fare affari puntando sui piatti di pesce” sottolinea Borin. “Colpisce il fatto che il ristorante si trovi a poche decine di metri dall’hotspot dove dovrebbero arrivare i migranti respinti dall’Italia senza poter chiedere asilo”.
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