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VIDEO | Rapporto di Amnesty International: dagli Usa all’Arabia tante violazioni

La ong fa il punto su 19 Paesi, senza dimenticare l'Italia e il caso Cucchi

Pubblicato:04-06-2020 13:35
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 18:26

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https://www.youtube.com/watch?v=c99LgMXXCgQ&feature=youtu.be

ROMA – Amnesty International Italia ha presentato oggi il Rapporto 2019-2020, un volume che come ogni anno si propone di fare il punto sullo stato di salute dei diritti umani nel mondo. L’edizione di oltre 200 pagine realizzata dalla sezione italiana dell’ong, oltre a proporre la traduzione delle cinque panoramiche regionali realizzato dal segretariato internazionale, analizza 19 Paesi in particolare attraverso una serie di criteri tra i quali: la gravità delle violazioni dei diritti umani, la valenza strategica di tali Paesi sul piano globale, la loro rilevanza dal punto di vista giornalistico e le loro relazioni con l’Italia. “Il tema dei temi di questo rapporto e’ stato l’attivismo, soprattutto quello dei giovani: non siamo in possesso di dati precisi ma possiamo dire che sono scesi in piazza a decine di milioni, da Beirut a Baghdad, da Conakry fino alla Russia e addirittura nelle satrapie dell’Asia centrale, con numeri che non si vedevano dal bienno 2010-2011”. Cosi’ il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury, durante la videoconferenza di presentazione del rapporto 2019-2020 dell’ong.

Il Rapporto, edito da Infinito Edizioni, con la prefazione firmata dallo scrittore Moni Ovadia e curato da Beatrice Gnassi, avvicina lo sguardo su Arabia Saudita, Brasile, Cina, Egitto, India, Iran, Italia, Libia, Myanmar, Polonia, Repubblica Centrafricana, Russia, Siria, Somalia, Stati Uniti, Sudan, Turchia, Ungheria e Venezuela.


Attraverso questi Paesi emerge in particolare un certo rinnovato attivismo, come si può osservare dalla rivoluzione in Sudan che ha posto fine al governo di Omar Al-Bashir, da 30 anni al potere, nonché le proteste di novembre in Iran per chiedere riforme democratiche, oppure quelle di marzo, ottobre e novembre contro leggi giudicate liberticide in Egitto. In quest’ultimo Paese, come nella maggior parte di quelli esaminati, si è osservato un giro di vite al dissenso, con cortei dispersi con la forza e incarcerazioni di dissidenti e intellettuali.

In Iran, invece, denuncia Amnesty, “le forze di sicurezza hanno represso una serie di proteste tenutesi in tutta la nazione, uccidendo oltre 300 persone, compresi bambini, secondo dati forniti da fonti attendibili”. In Cina poi, l’ong denuncia “processi iniqui e tortura e altri maltrattamenti in custodia” così come “nuovi casi di detenzione” a danno di minoranze quali “gli uiguri, kazaki e membri di altri gruppi etnici prevalentemente musulmani nella regione dello Xinjiang, nonostante l’annuncio del governo di una possibile graduale eliminazione dei ‘centri di formazione professionale'”.

Sono finiti nel mirino delle autorità anche i musulmani del Kashmir, in India, dove le autorità hanno revocato lo status speciale alle regioni di Jammu e Kashmir e “arrestato leader e attivisti d’opposizione”. Secondo Amnesty, “quasi due milioni di persone si sono trovate improvvisamente a rischio di apolidia a causa dell’introduzione di procedure arbitrarie e discriminatorie”.

Non va meglio per la libertà d’espressione e di libera manifestazione del dissenso soprattutto sul web o i social network, spesso oggetto di blocchi e censure. Un caso esemplare è l’Arabia Saudita, dove le autorità “hanno vessato, detenuto arbitrariamente e perseguito penalmente persone critiche nei confronti del governo, difensori dei diritti umani, membri della minoranza sciita e familiari di attivisti”.

Il fenomeno riguarda anche la Repubblica Centrafricana, dove le violenze dei gruppi armati e gli scontri con le forze di sicurezza generano situazioni di impunità nonché gli sfollati interni: 600.000, secondo quanto riporta Amnesty. Anche in Somalia gli strascichi della guerra civile e la violenza dei ribelli armati causa 300.000 nuovi sfollati interni. Sono oltre 600.000 anche gli sfollati rohingya che dal Myanmar hanno dovuto rifugiarsi in Bangladesh, a causa delle violenze interne. Oltre alle persecuzioni contro i dissidenti, l’ong riferisce che “è persistita l’impunità per le gravi violazioni dei diritti umani e gli abusi, compresi crimini di diritto internazionale. Il governo si è rifiutato di cooperare con i meccanismi internazionali d’indagine”.

Secondo i dati raccolti da Amnesty International, aumentano le leggi o gli atti persecutori scontro esponenti della comunità Lgbt, dall’Arabia Saudita agli Stati Uniti. In Russia preoccupano anche le violenze contro donne e ragazze, mentre per quanto riguarda la Siria, il conflitto armato non ancora terminato genera una molteplicità di pericoli per i civili, che chiama in causa anche gli attacchi diretti commessi dal governo siriano e da potenze internazionali, come Russia, Iran e Turchia. Ankara desta preoccupazioni per la stretta al dissenso: dopo il fallito golpe del 2016, anche lo scorso anno ha fatto registrare migliaia di arresti arbitrari, torture, licenziamenti e sparizioni forzate tra i dissidenti. In Brasile, il governo del presidente Jair Bolsonaro è accusato invece di impiegare una “retorica apertamente anti-diritti umani”, di cui starebbero pagando il prezzo le comunità native ma anche le risorse ambientali, tra cui la foresta amazzonica.

Quanto al Venezuela “le forze di sicurezza si sono rese ancora responsabili di esecuzioni extragiudiziali, arresti arbitrari, uso eccessivo della forza e uccisioni illegali, nel quadro di una violenta repressione contro il dissenso”. Rispetto all’Europa, si avverte il rafforzamento di governi autoritari in Polonia e Ungheria, insieme a una certa retorica contraria a rifugiati e richiedenti asilo. Un punto su cui si focalizza anche l’analisi dell’Italia: Amnesty denuncia il rinnovo degli Accordi con la Libia, vari atti volti a ostacolare le azioni di salvataggio in mare da parte delle ong nonché “la politica dei porti chiusi”. A questo si aggiunge il fenomeno degli sgomberi forzati e il perdurare del commercio di armi verso Paesi in guerra.

Una nota positiva è costituita dagli sviluppi del caso Cucchi: “Dopo 10 anni di battaglie giudiziarie – riporta Amnesty – due carabinieri sono stati giudicati colpevoli di omicidio preterintenzionale per il decesso in custodia di Stefano Cucchi, avvenuto nel 2009″.

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