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FOTO | VIDEO | Dalla mano di Dio allo scudetto politeista: il Napoli riscrive la storia

Né miracoli né riscatti: 33 anni dopo vincono collettivismo multietnico e programmazione

Pubblicato:04-05-2023 23:00
Ultimo aggiornamento:05-05-2023 10:48

festa scudetto
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NAPOLI – Alle 22.37 d’un giovedì di maggio si aprono le porte delle case di Napoli. La notte s’accende come a Capodanno, e la gente scivola in strada lenta, implacabile. Aveva lasciato uno “scudetto sospeso” domenica, va a riscattarlo Osimhen come al banco dei pegni, a Udine. Stavolta tornano tutti i conti – “ricalcola, fa ambress… è o’ ver?” – il Napoli ha vinto il suo terzo scudetto. Trentatré anni dopo. Un’intera esistenza di Cristo per riscoprirsi laici e felici. Napoli, così, sconsacra la sua chiesa monoteista: il vecchio dio s’è fatto in undici. Invece dei “mille culure” ne sono rimasti due, bianco e azzurro. Poi tre, il tricolore. Pure il pantone della festa smentisce la cartolina. Di questo giorno – 4 maggio 2023 – ognuno si porterà via un feticcio, un mattone, persino la sfravecatura.

Vien facile adesso dire che è stata – di nuovo – la mano di dio. Già quella di Dia aveva rovinato la prima festa. Ma il Napoli di Spalletti non s’è disunito e ha battuto pure quella, ‘a mano ‘e ddio che nel quotidiano ha un significato più prosaico, quasi tattile: la proverbiale fatica che serve per fare le cose, quasi tutto, a Napoli. Non c’è voluta ‘a mano ‘e ddio per ritrovarsi campioni con cinque giornate d’anticipo. In ritardo sull’anticipo causa Salernitana, certo. Ma l’inedita gestazione prolungata ha disinnescato il sacrificio, l’ha diluito: il campionato è volato in fuga leggero, ignifugo, ad una quota rarefatta, pochissimi attriti per lo più autoinflitti. Ed ha obbligato la città a svegliarsi politeista, con Maradona deificato a imperitura memoria tra statue, murales e rotonde, ma in campo una squadra intera. Il collettivismo al potere. Il passato è storia. Un’altra storia.

Come succede? Quando succede? Alla fine, inevitabile, è successo. Di notte. Anche l’ultimo “se” era caduto a dispetto della scaramanzia che continuano a raccontare endemica. La vittoria a Torino, al 93′, contro la Juve – di notte – aveva rotto l’ultimo argine, ma sono settimane, mesi che Napoli festeggiava cercando di darsi un pudore che non ha. “Il napoletano – dice lo scrittore Marco Ciriello – non crede a niente, recita delle parti, recita a soggetto”. Quel gol di Raspadori ha chiuso la commedia dell’arte, ha trasformato la finzione in verità come il ventiduesimo gol (senza rigori) di Osimhen. La firma sul finale non poteva che essere sua. E allora finalmente giù in strada, con tutto il repertorio dei caroselli, del Carnevale senza Rio, degli scooter in processione ai confini della rinnovata zona rossa, pardon… azzurra. Una piena in replica. Centinaia di migliaia di ragionieri, avvocati, pescivendoli, disoccupati, ladri, insegnanti, commercianti, emigrati, uomini donne e bambini che domani salteranno la scuola. Tutti fujenti e sbandieratori per una notte. Attraversano in sfilata la Napoli bendata preventivamente coi fascioni soffiati dal vento a sbattere contro i palazzi. Fili tirati da un condominio a quello dirimpetto. I santini di Osimhen e Kvaratskhelia al posto dei panni stesi ad asciugare. Quelli non mancano mai. E i sagomati di cartone 1:1, per mettere in posa i selfisti.


Il dominio assoluto di questa stagione aveva dato a tutti il tempo di prendere possesso della vittoria. Di rivendere l’attesa stessa ai turisti, di monetizzarla. Di riempire la pancia della città, con l’indotto delle bancarelle e delle pizze a portafoglio. Lo scudetto come un monumento da visitare mentre prende forma, come andare a sbirciare il Cristo Velato mentre Giuseppe Sanmartino ancora lo levigava. E poi la lotteria del weekend vincente: il biglietto per il giorno giusto, per ritrovarsi da ospite a Forcella o a risalire i Quartieri Spagnoli, tramortiti dalla folla, trascinati via. “Io c’ero quel giorno a Napoli che…”, racconteranno. Souvenir.

Dopo averne perso uno in un albergo fiorentino ai tempi di Sarri e Insigne e Mertens, ecco quello a lento rilascio. Vidimato da un fischio finale, anzi tre. Un arbitro che dice basta, dai: ora nessuno ve lo toglie più. Solo l’ultimo atto da consumare, lasciando poco spazio all’improvvisazione, alla sorpresa. Era già tutto pronto in favore di migliaia di smartphone puntati l’uno contro l’altro per fabbricare ricordi indelebili. Il resto, con un po’ d’ansia, l’hanno fatto le istituzioni col travaglio dello spostamento di Napoli-Salernitana dal sabato alla domenica, e l’organizzazione militare d’un evento poi sfumato.

Adesso sciamano gli ex bambini degli anni 80. E i loro figli che niente sanno di quell’infanzia in cui il pallone nelle piazze aveva il colore delle carote, arancione, ed era ancora una cosa di tutti, “normale”. Per loro è il primo scudetto, mica il terzo. Alcuni padri, ormai anziani, molti altri affacciati ai balconi “che è cchiu’ sicuro”. Trentatré anni fa Piazza del Plebiscito era un parcheggio a cielo aperto. Tra le macchine si giocava a fare Maradona e Careca, senza i nomi sulle spalle, bastavano i numeri. Le poche aiuole in salute adesso sono sponsorizzate coi soldi dei commercianti, e lì non si gioca più. Il merchandising aveva solo forme diverse. Oggi ci sono le mascherine di Osimhen, trenta anni fa il Diario di Maradona.

È un ciclo che si ripete, deviando la frode nostalgica degli adulti. Le immagini patinate di quei ricordi, elaborate in tre decenni, restano sullo sfondo, quinte polverose. “Non c’è mai stato più inizio di quanto ce ne sia ora, né più giovinezza o vecchiaia di quanta ce ne sia ora, e non ci sarà mai più perfezione di quanta ce ne sia ora, né più paradiso o inferno di quanto ce ne sia ora”. Walt Whitman non aveva visto il Napoli di Spalletti, e la sua danza tra passato, un presente lunghissimo e un futuro non improvvisato. L’ha detto persino l’allenatore, citando nientemeno che il Piccolo Principe: “È il tempo che determina se vuoi bene a una cosa”. La poesia dell’attimo da cogliere, come il più felice dei tempi possibili, quest’anno s’è fatta calcio a Napoli.

Dal 9 ottobre 2005 della famigerata trasferta a Gela post-fallimento (quella coi tifosi a contarsi, ipotecando il valore morale della presenza per gli anni a venire), allo scudetto con quarti di Champions annessi. Da quel fango ai quattro articoli in due mesi sul New York Times. In un percorso netto di riabilitazione aziendale, di crescita costante, di grandi allenatori e giocatori fortissimi. Di Benitez e Ancelotti, di Cavani e Higuain. Di “De Laurentiis pappone”, e striscioni contro Spalletti un’estate appena fa. Di irrefrenabile eccitazione, e persino uno sciopero ultrà sul più bello. Per arrivare ad un punto esatto: il 2023 di un Napoli con diciassette nazionalità diverse, con un solo argentino e un solo brasiliano – e non quei due lì, gente normale. Un coreano e un kosovaro in difesa, un georgiano e un nigeriano in attacco. Una catena di montaggio a ingranaggi perfetti. La nobiltà operaia. Un oltraggio alla napoletanizzazione forzata, ai cliché della diversità identitaria, alle rendite di posizione. Le buone pratiche aziendali e sportive. Il Banco di Napoli che comprò Maradona appartiene a Intesa Sanpaolo, sta a Torino e non serve più. Il primo scudetto in attivo, il primo scudetto sostenibile.

Ci sarà ancora il “mare fuori”, domani. E chi lo toglie, quello. Ma dentro, nella chiesa appena sconsacrata, la sorpresa di un’altra Napoli possibile: non si fanno miracoli, la fede è un orpello. Il “riscatto” (da cosa? da chi?) è un mito pezzotto. A Napoli si programma, si lavora, si costruisce, si vince. Così è stato, e amen.

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