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Covid, l’Oms studia nomi per le varianti che non stigmatizzino popoli

Tra i più gettonati dal team convocato dall'Organizzazione mondiale della sanità al momento ci sarebbero V1, V2 e V3

Pubblicato:04-03-2021 17:33
Ultimo aggiornamento:04-03-2021 17:33

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ROMA – 20H/501Y.V2. VOC 202012/02. B.1.351. Questi gli strani nomi che gli scienziati hanno proposto al mondo intero per le varianti del Sars-Cov2. Il problema con nomi di questo tipo, è che basta spostare o perdere un unico punto perché facciano riferimento a un tipo completamente diverso di virus. Allora come occorre comunicare queste varianti ora che preoccupano sempre più popolazioni di diversi Paesi nel mondo? E ancor di più, come comunicarle senza stigmatizzare persone o luoghi che ne sono associati? Le denominazioni numeriche per l’opinione pubblica non sembrano funzionare, “la sfida è trovare nomi distinti che informino e che non implichino riferimenti geografici, rimanendo in qualche modo pronunciabili e memorabili”, commenta Emma Hodcroft, epidemiologa molecolare dell’Università di Berna in Svizzera. “Sembra piuttosto semplice- aggiunge- ma in realtà non lo è”.

Per questa ragione l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha convocato un gruppo di lavoro di “alcune dozzine di esperti- si legge sul New York Times- per ideare un modo semplice per nominarle”. La soluzione principale su cui si punta sembra quella di trovare “un sistema unico di denominazione che tutti possano utilizzare”, che rimanga però connesso “a quelli più tecnici su cui gli scienziati fanno affidamento”. Un nuovo sistema che “assegnerà alle varianti un nome facile da pronunciare e ricordare, riducendo così anche gli effetti negativi non necessari su nazioni, economie e persone”, ha dichiarato l’Oms. La proposta sembrerebbe al momento “in fase di revisione”, si legge nella nota.

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In pole position per le nuove denominazioni ci sono le semplicissime: V1, V2 e V3, che rispettivamente sarebbero poi le numerazioni delle varianti nell’ordine in cui sono state identificate. Il tema centrale, sottolineato a più riprese anche dal New York Times, è che fenomeni come il razzismo o l’imperialismo “si sono infiltrati nei nomi delle malattie”, come quando il colera diffusosi nell’800 dal subcontinente indiano fino in Europa, prese presto il nome sui quotidiani britannici di “colera indiano”, vestito “in turbante e vesti”. Lo storico della scienza Richard Barnett ha infatti commentato al quotidiano statunitense: “La denominazione può molto spesso riflettere ed estendere uno stigma preesistente”.

Già nel 2015, l’Oms ha pubblicato le migliori pratiche per la denominazione delle malattie: “Evitare luoghi geografici o nomi di persone, specie di animali o alimenti e termini che incitano a paure indebite quali ‘fatale’ ed ‘epidemia’. Come per ogni aspetto del comunicare e informare, è necessario “elaborare un sistema che tutti possano capire, non solo i biologi”, aggiunge Tulio de Oliveira, membro del gruppo di lavoro dell’Oms, che da tempo redarguisce i colleghi nell’evitare assolutamente la terminologia come “variante sudafricana”.

In altri termini, infatti, queste stigmatizzazioni sono state portate avanti dall’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che a più riprese ha sottolineato la provenienza “cinese” del virus. Fenomeni che hanno alimentato, ricorda il Nyt, “xenofobia e aggressioni contro le persone di origine asiatica in Occidente”. Qualsiasi sistema l’Oms adotterà dovrà essere approvato dagli scienziati come dal pubblico, e la sfida, conclude la dottoressa Hodcroft, è “trovare termini che le persone possano dire, digitare e ricordare facilmente, altrimenti torneranno semplicemente a utilizzare il nome geografico”, che stigmatizza.

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