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Sentenza caso Matei, l’avvocata: “Tempesta emotiva non può essere attenuante”

Per l’avvocata penalista Francesca Garisto la sentenza che dimezza la pena a Michele Castaldo, autore del femminicidio di Olga Matei, è una “sentenza contraddittoria"

Pubblicato:04-03-2019 17:32
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 14:11

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ROMA – “Ai fini della determinazione della pena non si può mettere in rapporto la gravità di un omicidio con la considerazione dello stato emotivo che lo ha determinato, perché così non si riconosce il valore della vita della vittima”. Per l’avvocata penalista Francesca Garisto, del Gruppo Avvocate di D.i.Re.-Donne in Rete contro la violenza, membro del comitato DireDonne dell’Agenzia di stampa Dire, la sentenza che dimezza la pena a Michele Castaldo, autore del femminicidio di Olga Matei, è una “sentenza contraddittoria“, che “riporta alla memoria il delitto d’onore” e rappresenta “un passo indietro dal punto di vista culturale, che porta a considerare gli stati emotivi quasi una giustificazione o comunque meritevoli di un ridimensionamento della responsabilità penale”.

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Contraddittoria, perché “applica l’aggravante per aver commesso il fatto per futili motivi“, la gelosia, ma allo stesso tempo, “per attenuare la gravità della pena che ne risulta a fronte del riconoscimento dell’aggravante”, riconosce pure “le attenuanti generiche”, motivandole con la necessità di dare valore alle “esperienze di vita frustranti sul piano delle relazioni con le donne”, che avrebbero procurato la “soverchiante tempesta emotiva e passionale” che ha condotto all’omicidio. Attenuanti che, per Garisto, non dovevano essere riconosciute anche solo per la “brutalità efferata” con cui la donna è stata uccisa: a mani nude.

Il corto circuito è, innanzitutto, nel meccanismo di riduzione della pena, che ha portato i 30 anni inflitti in primo grado dal Gup di Rimini alla riduzione a 16 stabilita dalla Corte d’Appello di Bologna. “In appello il giudice ha fatto due operazioni- spiega Garisto alla Dire- è partito da una pena base di 24 anni, inferiore rispetto a quella stabilita dal giudice di primo grado che era partito dall’ergastolo, ridotto a 30 anni per la scelta del rito abbreviato, e su quella, ha applicato una riduzione di 1/3 per il riconoscimento delle attenuanti generiche, equivalenti all’aggravante”. La contraddizione sta proprio nel fatto che “se si riconosce l’aggravante dei motivi abietti e futili, poi non si può dire che questi motivi abietti e futili tutto sommato si smorzano di fronte al fatto che quest’uomo aveva avuto esperienze sentimentali negative”.


Dalla vittima all’imputato. Secondo l’avvocata il focus del processo ha perso di vista “la persona offesa, le parti civili e i loro diritti. Tutto si è spostato sulla comprensione dello stato emotivo dell’imputato, che addirittura arriva a giustificare il ridimensionamento della responsabilità penale e la gravità dei fatti commessi- sottolinea Garisto- Nessuna attenzione per la vittima, invece, perché non c’è una parola nel corso della motivazione di questa sentenza, che valuti, pesi e soppesi la devastazione che ha portato un’azione di questo genere nella vita della donna e delle persone a lei legate”.

“Così le donne non le tuteli più, perché con la passione e l’emozione si può giustificare tutto”, avverte la penalista, che sottolinea: “Dentro e fuori i tribunali spesso mancano la sensibilità, la cultura e la formazione per capire i meccanismi a cui dare riconoscimento e valore, c’è un arretramento”. E la formazione, insiste Garisto, dovrebbe essere realizzata sulla base di “un protocollo nazionale unico, uniformato, e condiviso” con “operatori e tecnici specializzati” le cui competenze non vanno valutate con il titolo di studio, ma a partire dall’esperienza “di chi con le donne lavora, dalle operatrici dei centri antiviolenza, alle avvocate con anni di esperienza in questo settore, alle psicologhe”.

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