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MILANO- Il lavoro fa soffrire le persone a Milano. Un cittadino su 10 (circa 375 mila persone se si considerano a spanne tre milioni di abitanti dell’area metropolitana, ndr), si è dimesso dal proprio lavoro negli anni. Un dato per difetto visto che non tutti i residenti sono in età da lavoro. Il 60% delle persone che lo ha fatto- 225.872 persone– ha consegnato la lettera tra il primo gennaio 2023 e il 31 dicembre 2024. La ricollocazione– sia attraverso il sistema privato delle agenzie per il lavoro che quello pubblico dei centri per l’impiego- scontenta il 60% degli aspiranti; poco meno di uno su tre (33%) ha la situazione sotto controllo (risposta “sì” o “molto”), fra chi ha ritrovato un lavoro. Fra chi lo ha interrotto gli ottimisti si fermano poco sopra il 26%. Fra chi ha ritrovato un lavoro, nei due terzi dei casi lo ha accettato con una retribuzione inferiore alla precedente, mentre un terzo delle risposte riferisce valori “simili o inferiori” all’indennità percepita in precedenza da disoccupato. Insomma solo uno su cinque migliora il proprio stipendio. A un anno dalle dimissioni il 35% non ha ancora ritrovato un impiego, segno che le dimissioni erano al “buio”.
E’ il quadro che emerge dai 3.800 questionari somministrati- in quattro ondate a distanza di tre mesi tra febbraio 2022 e febbraio 2024- ai percettori di Naspi che si sono rivolti al patronato Inca Cgil. L’indagine è stata presentata stamane in Camera del lavoro da Valentina Cappelletti, segretaria Cgil Milano, Rocco Dipinto, dipartimento politiche del lavoro Cgil Milano, Antonio Verona, dipartimento mercato del lavoro Cgil Milano e Claudia Di Stefano, segretaria generale Nidil Cgil Milano, la sigla degli atipici.
L’indagine sul mercato del lavoro milanese del sindacato evidenzia una crescente instabilità nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Di coloro che si sono dimessi tra il 2023 e il 2024 più di 7.000 provengono dalla pubblica amministrazione, una volta approdo sicuro. Le dimissioni coinvolgono in larga misura lavoratori sotto i 34 anni, spesso supportati dalla famiglia. L’insoddisfazione tocca gli aspetti risaputi: non solo il salario, ma in particolare la conciliazione vita-lavoro, anche se la curiosità riguarda le donne impiegate nelle forze armate, soddisfatte al 100%.
Chi è riuscito a rioccuparsi lo ha fatto cambiando qualifica professionale nel 68% dei casi e quasi la metà di questi ha cambiato tipologia contrattuale, a dimostrazione del fatto- spiega la Cgil- che il cambiamento delle condizioni di lavoro assume una priorità che va oltre il profilo, la tipologia contrattuale e la stessa stabilità lavorativa. Meno di una persona su 4 risponde di aver ricevuto della formazione durante i primi 3 mesi di ricerca del lavoro, il che rappresenta “un’incoerenza- hanno detto i sindacalisti- rispetto all’obiettivo europeo di sfruttare le Politiche attive per il lavoro per fare uscire dalla disoccupazione un soggetto nei primi 4 mesi”.
I rioccupati sono in prevalenza a termine: si va (quarto blocco di questionari, il più recente) da contratti di somministrazione a tempo determinato (11,9%) a un 42,6% di tempo determinato. I contratti di somministrazione a tempo indeterminato sono il 2,38%, quelli da dipendente a tempo indeterminato il 28,57%. Il lavoro autonomo è scelto dal 2,38%. Lo stipendio è inferiore al precedente nel 40,48% dei casi, uguale o simile nel 38,1. Solo il 21,43% ha migliorato la propria situazione precedente.
Le mansioni prevalenti- oltre un terzo delle dichiarate, hanno precisato i ricercatori Cgil- sono a basso valore aggiunto: la percentuale del 12,5% accomuna la quarta ondata di questionari in tre settori: commercio, turismo, ristorazione, pulizia e vigilanza, trasporto e magazzinaggio.
Ne consegue che fare progetti di vita “per te stesso/a o con altre persone” è ritenuto impossibile dal 59,52% dei rispondenti; solo il 40,48% vede la luce. Significativo anche il modo in cui si ritrova il lavoro: i bandi pubblici rappresentano solo il 3,23%, resiste bene la conoscenza all’italiana (datore conosciuto 8,96%, amici o parenti 12,19%, ex colleghi all’8,46%). Domina la piattaforma digitale al 26,12%, il curriculum via mail all’11,69% e il curriculum portato di persona al 5,72%.
L’età media dei disoccupati si aggira attorno ai 50 anni, con difficoltà di reinserimento per i lavoratori maturi. Circa il 20% degli intervistati non cerca lavoro, con differenze di genere: gli uomini spesso per pensionamento, le donne per motivi di cura (soprattutto figli per i migranti, anziani per gli italiani). Fra le aspettative in ordine al posto di lavoro ideale stabilità e retribuzione sono le priorità principali, seguite dalla vicinanza alla residenza, mentre allo Stato si chiedono salario minimo, sanità e sicurezza.
“Le persone che la Cgil ha intercettato- dice Valentina Cappelletti, segretaria Cgil Milano- sono esposte al rischio continuo di disoccupazione a causa delle condizioni strutturali dei contesti in cui lavorano, unite alle lacune degli interventi pubblici. Le politiche pubbliche oggi dovrebbero occuparsi del cosiddetto re-skilling, ma l’offerta di formazione adeguata si trova con molta fatica. Quindi non solo cercare lavoro è un lavoro, ma anche cercare una formazione all’altezza del proprio fabbisogno è un lavoro. L’Italia ha un tasso di occupazione che in qualche modo ‘cresce’, come in tutti i principali paesi europei, ma abbiamo un reddito reale che continua a scendere: si chiama sfruttamento. Indica il fatto che, quando le persone sono messe in condizione di lavorare, generano una produttività tecnicamente sempre superiore a quella che viene riconosciuta loro attraverso le retribuzioni. Vengono pagate meno di quanto mettono a disposizione quando lavorano”, conclude Cappelletti.
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