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VIDEO | Da Judy Chicago alle Guerriglia Girls, il primo fumetto sulla ‘Feminist Art’

Eva Rossetti e Valentina Grande, disegnatrici e autrici di 'Feminist art' raccontano il primo libro a fumetti sull'arte femminista mai pubblicato in Italia

Pubblicato:03-12-2020 10:53
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 20:41

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ROMA – I fiori celebrano, omaggiano, decorano, arricchiscono, lusingano, sono tradizionalmente legati al femminile. In ‘Feminist Art’, il nuovo fumetto pubblicato a settembre per Centauria edizioni al centro di uno degli incontri online del festival del fumetto Bande de Femmes (5-8 dicembre), le protagoniste li comprano e li imbracciano, nella tavola finale li lanciano in una manifestazione, in un gesto di protesta. E da ‘easter egg’ nascosto tra le righe in omaggio a Virginia Woolf, con Judy Chicago nei panni della ‘Mrs Dalloway’ del famoso incipit “i fiori sarebbe andati a comprarli lei”, quegli stessi fiori diventano nella tavola finale del quarto capitolo “una specie di molotov”, cambiando colore quasi “fossero pieni di fuoco”. Eva Rossetti, disegnatrice e autrice di ‘Feminist art’ assieme a Valentina Grande, descrive così all’Agenzia di stampa Dire lo spostamento di senso compiuto sul bouquet che accompagna le donne raccontate nel primo libro a fumetti sull’arte femminista mai pubblicato in Italia. 

“Sentivo una grandissima responsabilità”, confessa Grande, docente, autrice e conduttrice radiofonica dei programmi di letteratura ‘Simply Salinger’ e ’42 la risposta’ in onda su Radio Onda d’Urto e Radio Città Fujiko. “Qui non c’era solo il mondo femminista che non volevo deludere- chiarisce- c’era anche il pubblico generalista che non sa nulla di arte femminista. Abbiamo dovuto far passare contenuti corretti, senza tradirne il messaggio politico“. 


ARTE FEMMINILE E ARTE FEMMINISTA

Sì perché è proprio il messaggio politico a distinguere l’arte femminile da quella femminista. E raccontare questa differenza, è uno degli obiettivi di ‘Feminist Art’, perseguito narrando le storie di Judy Chicago, Faith Ringgold e Ana Mendieta, artiste che si sono dette femministe, in quello sforzo di definizione e rappresentazione come donne, e donne artiste, che è l’altro fil rouge del volume. “I primi tre capitoli sono dedicati a queste tre singole artiste, mentre il quarto al collettivo delle Guerrilla Girls- spiega Rossetti, diplomata alla Scuola Romana dei Fumetti che con Grande ha già lavorato in ‘Il mio Salinger’- Una scelta che mi è piaciuta molto- riprende- perché il libro parte raccontando le esigenze di singole artiste che in una specie di percorso diventano universali”. E si fanno collettivo, il più irriverente che si ricordi, le femministe travestite da gorilla che da oltre trent’anni combattono sessismo e razzismo nel mondo dell’arte a suon di poster, cartelloni pubblicitari e irruzioni pubbliche. “Abbiamo scelto di raccontare artiste americane perché gli Stati Uniti sono il punto di partenza di molti movimenti artistici femministi e soprattutto perché a New York, nel Brooklyn Museum, c’è un piano interamente dedicato all’arte femminista- sottolinea Grande- Abbiamo ritenuto opportuno, visto che era il primo libro a fumetti sul tema, partire dall’inizio, senza sperimentare troppo e confondere il lettore o la lettrice inserendo nomi da più parti del mondo”.

DEFINIRSI “È PRENDERE COSCIENZA, È POLITICA”

Ma perché è così importante per le artiste femministe definirsi come donne, donne artiste, e donne artiste femministe? “Le protagoniste partono dal racconto di loro stesse per far comprendere che è fondamentale tirarsi fuori da una narrazione maschile e raccontarsi, per far sì che altre donne possano riconoscersi e sentirsi maggiormente rappresentate- continua Grande- Non è un caso che siamo partite da Judy Chicago, che fa tutta una riflessione sull’uso delle parole. La definizione è presa di coscienza, è un’azione di conservazione verso se stesse, nel senso che io mi definisco così non sono inquinata da altre definizioni che possono essere fatte su di me dall’esterno”. E infatti Judy, nata Cohen, cambia il suo cognome in Chicago, “come facevano le Black Panther perché volevo autodeterminarmi, volevo scegliere da sola il mio nome”, si legge nel libro in una breve biografia introduttiva dell’artista. “Definirsi è già politica”, osserva la sceneggiatrice, che ricorda alcuni nomi di artiste “considerate importanti per il movimento artistico femminista, ma che non si sono mai volute definire tali”. Su tutte “Louise Bourgeois, Marina Abramovic, Barbara Kruger”. 

DOPO ‘THE DINNER PARTY’ LA STORIA DELL’ARTE NON È PIÙ LA STESSA

Ma è la grande tavola triangolare della discordia, quel Dinner Party svelato per la prima volta a San Francisco nel 1979, l’opera femminista che secondo Rossetti e Grande ha cambiato per sempre il corso della storia dell’arte mondiale. “La trovo davvero forte a livello concettuale”, sottolinea la disegnatrice. “È stata un grande fenomeno da tutti i punti di vista: nelle polemiche, nelle critiche, nell’esaltazione- le fa eco Grande- Alla fine dal punto di vista artistico può anche non piacere, perché appare come un’opera fondamentalmente kitsch, ma la potenza sta in quello che c’era dietro”. Ed è qui che torna l’importanza di autodefinirsi: “Essere donna non necessariamente produce un’opera femminista. La definizione produce un certo tipo di contenuti che hanno un obiettivo”. Come a dire: “‘Io voglio che la mia arte sia veicolo di un contenuto che cambi la società’. Ha una propulsione totalmente diversa”, osserva. E anche ‘Feminist Art’, in fondo, aggancia la stessa propulsione. “Sicuramente puntiamo a un pubblico attento alle tematiche femministe, a un pubblico esperto d’arte. Ma, soprattutto, puntiamo alle nuove generazioni, ragazze e ragazzi che hanno una consapevolezza diversa anche dell’uso delle parole e ne sono meno spaventati”, è l’auspicio della sceneggiatrice. “In realtà nelle presentazioni stiamo avendo un riscontro più ampio del circuito delle femministe e delle storiche dell’arte- chiude Rossetti- E questo ci fa davvero piacere”.

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