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Cultura, la rivoluzione di Bergamo: “In due anni a Roma cambia tutto”

Quello che vuole fare Luca Bergamo, assessore alla Crescita culturale della Giunta Raggi, è riorganizzare le istituzioni culturali capitoline

Pubblicato:03-12-2016 14:34
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 09:23

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V. Raggi e L. Bergamo

V. Raggi e L. Bergamo

ROMA – ‘Tutti si aspettano l’evento, ma l’evento è una pezza per mascherare il fatto che non si riesce a intervenire sul sistema di fondo’. E invece quello che vuole fare Luca Bergamo, assessore alla Crescita culturale della Giunta Raggi, è proprio riorganizzare le istituzioni culturali capitoline. Un lavoro lungo, che non si fa in un giorno e nemmeno in sei mesi. ‘Ma sono sicuro che tra un paio d’anni l’effetto sarà molto visibile’.

Del resto, il creatore di ‘Enzimi‘ ha accettato la sfida convinto che ‘le condizioni politiche per cambiare adesso ci sono’. E per ora prova a farlo fuori dalla moda dello spoils system, perché ‘è sbagliato decidere sulle persone partendo da un pregiudizio’.

Dall’Estate romana ai cinema dismessi, passando per il Maam e i luoghi altri della Capitale, l’agenzia DIRE ha intervistato l’inquilino di piazza Campitelli.


Partiamo dalle realtà culturali non istituzionali a cui, dal Teatro Valle al Maam e il Cinema Aquila, il suo assessorato guarda molto. Sembra che la sindaca Raggi le abbia dato carta bianca, anche al di là della ‘legalità dei bandi’.

– Non c’è conflitto tra mettere a bando una realtà e cercare di capire a che cosa serve insieme alle persone che ci hanno lavorato e altri. Quello che stiamo facendo al cinema Aquila è esattamente questo. Abbiamo messo in piedi un percorso che riconosce che è stato fatto un lavoro, ma avvia un processo che coinvolge tutto il quartiere, non solo i comitati. Vogliamo arrivare a un documento della Partecipazione sulla base del quale faremo un bando che però non sarà più il prodotto cervellotico di un’amministrazione, ma il risultato di una domanda complessa. Di fronte a questo, l’amministrazione avrà anche una responsabilità, perché se si mette in piedi un’attività che si sostiene vuole dire probabilmente che c’è un intervento pubblico di compensazione. Ecco, il bando sarà fatto in modo da sollecitare una progettazione culturale e gestionale che risponda alle istanze del territorio. Questo rientra nella logica della partecipazione, ma non scappa dal meccanismo di mettere a confronto progettualità.

Però l’idea del Movimento Cinque Stelle è di produrre bandi per fare rientrare alcune realtà nel perimetro della legalità.

– Quando la sindaca dice che dobbiamo rimettere nella legalità certi meccanismi è perché c’è anche un problema di legge. Ma non solo, perché non c’è dubbio che se si definiscono le funzioni che devono essere restituite alla comunità, mettere in competizione progettualità è meglio che prendere un pacchetto già fatto.

E nel caso del Teatro Valle?

– Intanto bisogna riuscire a riaprirlo. In ogni caso, di tutte le esperienze del Valle, la cosa più importante fu il dibattito che portò alla stesura dello Statuto. Ecco, mi piacerebbe riprodurre quei meccanismi con la logica del Talmud che nasce proprio perché le regole orali non possono essere scritte. E tra l’interpretazione della regola orale e quella scritta, tutto intorno c’è il dibattito. Dell’esperienza del Valle mi piacerebbe moltissimo recuperare questo. Non solo il prodotto finale, lo Statuto, ma quello che ha portato alla sua formazione. Anche quell’esperienza ha delle contraddizioni: è nata come grande apertura che poi si è ristretta ed è diventata identitaria. Tutte le esperienze di quel tipo lo diventano, perché a un certo punto scatta un processo tipico della difesa. Quando saremo in grado di rimetterlo in funzione, certamente andrà ricostruita una storia della funzione pubblica del Valle di cui chi ha fatto tutto quel lavoro deve far parte.

A proposito del Maam, quando lo ha visitato ha detto che ‘varrebbe la pena includerlo nel recupero dell’ex Cerimant previsto dal Mibact’. Si è mai confrontato su questo con il ministro Franceschini?

– Siccome il Cerimant è praticamente attaccato al Maam, se si decide di fare un intervento, deve essere fatto insieme tra ministero dei Beni culturali e la città. Si tratta della riabilitazione di quella parte attraverso un investimento che costruisce un polo culturale. Ma se accanto al Cerimant c’è il Maam, che è un altro polo culturale, allora deve far parte del ragionamento. Poi, quale sia il modo per farlo oggi non lo so, anche perché non c’è stato un confronto con Franceschini. Il ministro a oggi mi ha raccontato brevemente la volontà e l’interesse di attuare quel progetto con la città. Io ho risposto che siamo interessati a parlarne, ma poi bisogna entrare nel merito. Ovviamente si può collabo

Veniamo ai cinema: a Roma quelli dismessi sono circa quaranta. La scorsa Giunta aveva preparato una memoria per metterli a bando e farli diventare spazi polifunzionali in cui la funzione culturale restava, ma lasciava spazio anche a quella commerciale. Che ne pensa? E’ una via percorribile?

– Non lo so se quella strada sia perseguibile. Ma alla base di tutto c’è il problema del modello d’impresa delle sale cinematografiche. La sensazione netta che ho è che di fronte a una crisi del settore ci sia una incapacità di reagire al cambiamento dei consumi e di produrre un’offerta diversa. L’idea che si risolva il problema dell’equilibrio economico di un cinema solamente facendogli vendere il prosciutto dentro secondo me è strampalata, perché non aggredisce l’approccio imprenditoriale alla vendita del prodotto cinema. C’è una diversificazione della domanda a cui oggi non c’è risposta. Potrebbe esserci uno spazio di intervento pubblico privato tutto da sperimentare che riguarda l’individuazione di nicchie di consumo potenziale che oggi non sono mai aggredite. Come si fa? Guardando alle comunità cinesi o senegalesi, per esempio, o a chi vorrebbe film in lingua originale. Ma certamente una misura che non stimola gli imprenditori a rispondere alla diversa composizione del pubblico è destinata a non produrre nulla. Mi piacerebbe trasformare il cinema nello strumento che recupera la dimensione collettiva, magari anche proiettando le serie tv. Perché non si fa? Per carità, ci sono tutti i problemi del pianeta, ma ci si può ragionare, invece di insistere solo sul film ‘panettone’ o il ‘blockbuster’.

Dal Teatro di Roma al Macro e l’Auditorium (che sembra abbia interrotto la sua età dell’oro), finora la Cultura non ha visto nessuna nuova nomina. State pensando a qualche cambio di vertice?

– C’è una serie di ragioni. Intanto, per cambiare qualcuno è necessario che il suo incarico scada o che vi siano motivi inoppugnabili per farlo decadere. Inoltre, penso che sia strutturalmente sbagliato decidere sulle persone partendo da un pregiudizio di valutazione separatamente dal contesto in cui hanno operato. Io non chiedo ‘fammi questo o quell’altro spettacolo’. Ciascuna di queste persone ha agito fino a ieri all’interno di un contesto fortemente influenzato da decisioni, da volontà politiche e da orientamenti che hanno largamente concepito l’intero sistema come un sistema di carattere proprietario. Questa cosa io non la faccio. Finora alle istituzioni culturali è stato chiesto di fare quello che stava nel gradimento di un assessore o comunque di gestire un oggetto più o meno chiuso, a sé stante, che di massima doveva produrre dei risultati di carattere economico, ma senza nessuna valutazione sull’effetto che quell’attività aveva sulla città. Allora, la prima cosa che è stata detta loro è di riorganizzare le attività in modo che ci sia un effetto di redistribuzione e diffusione sul territorio. Il tutto, con una fortissima spinta a vedere ciascuno come componente di un sistema. Nell’insieme, devono produrre un risultato che si chiama Crescita della vita culturale della città. Questo è un compito diverso rispetto a quello che hanno avuto fino a oggi. E su questo sono soggetti a valutazioni.

Dunque non procederà ad alcun cambio di vertice?

– Ci sono alcune nomine che sono in scadenza naturale, come il Consiglio di amministrazione del Teatro di Roma che scade a febbraio. Quello sarà rinnovato.

Ha già qualche idea?

– Le nomine le fa la sindaca e comunque, in questo caso, vanno fatte contestualmente alla Regione Lazio.

Per il resto?

– C’è anche Musica per Roma che ha un cda in scadenza nel 2018. L’istituzione che gestisce l’Auditorium è stata diretta in modo molto determinato e molto personale per un lungo periodo da una persona (Carlo Fuortes, ndr). Poi, un’altra persona è stata scelta su esito di una procedura pubblica internazionale. Josè Dosal è arrivato in quel contesto, si è trovato senza governo e con rapporti non semplici tra Musica per Roma e Santa Cecilia. Era senza interlocutori. Adesso invece ha tutte le condizioni per dimostrare che è una persona adatta per fare quel lavoro. Per quanto riguarda Biblioteche di Roma, invece, stiamo costituendo il cda. E’ stato emesso un bando, sono arrivate oltre trenta candidature. La sindaca e io faremo una scelta che costituirà il nuovo cda dell’istituzione, che era decaduto. Ribadisco: a meno che non ci siano comportamenti manifestamente in contrasto con l’indirizzo o con la legge, le persone non si sostituiscono per il gusto di farlo.

Ancora sul Macro: qual è il futuro del museo?

– Il Macro non può essere e non è visto come oggetto separato dal Palazzo delle Esposizioni. Entrambi sono parte della visione sul contemporaneo e sul futuro in città. Entro la fine dell’anno si concluderà l’iter per la cessione delle Scuderie del Quirinale e, secondo gli accordi con le organizzazioni sindacali, il personale che ne farà richiesta, da zero a 16 dipendenti, potrà trasferirsi in Ales (società del Mibact, ndr). Il Macro entrerà in gioco, ma in ogni caso il Palazzo delle Esposizioni sarà in grado di funzionare sulle sue prestazioni. Il punto, però, è che dovrà fare un lavoro totalmente diverso che investirà anche Macro e altre strutture che hanno affinità con questa strategia sul contemporaneo.

Può spiegarlo più nel dettaglio?

– Stiamo definendo il profilo che ciascuno di questi luoghi avrà nella formazione di una proposta sul contemporaneo e sul futuro a Roma, tenendo fermi due addentellati esterni: il rapporto col Maxxi e il collegamento con la rete delle biblioteche, che è fondamentale perché permette di far arrivare l’offerta in tutto il territorio. La zona di confine del Palazzo delle Esposizioni andrà dall’arte contemporanea all’uso della tecnologia e della scienza come strumento fondamentale per l’evoluzione delle capacità cognitive umane.

Quando sarà visibile questa zona di confine?

– Per un po’ il Palazzo delle Esposizioni farà il classico. Da settembre dell’anno prossimo comincerà a fare delle cose completamente diverse. E questo accadrà anche per le altre istituzioni coinvolte.

A oggi, però, il Palazzo delle Esposizioni è ancora guidato da un commissario straordinario.

– La scelta fatta finora è di non voler costituire un nuovo Consiglio di amministrazione fin quando il progetto culturale non sarà definito, in modo tale che la scelta del cda non sia astratta, ma al servizio del nuovo ruolo di quell’istituzione.

Passando invece all’Estate romana, sono anni che la manifestazione estiva per eccellenza è in agonia. Bandi in ritardo e meno soldi per gli eventi. Come sarà sotto il suo assessorato?

– Non sono in grado di anticipare il prodotto finale, ma il lavoro che stiamo facendo è di capire che cosa, nella struttura della città di oggi, restituisce il concetto fondamentale dell’Estate romana di Nicolini, che era il recupero dello spazio pubblico negato. Lui lo fece nel punto più delicato di Roma, che era il Centro storico. Ma Roma non è più quella città, è tutta un’altra cosa. La dimensione dello stare insieme, dello spazio pubblico, è negata dappertutto. L’Estate romana oggi è semplicemente un’accozzaglia di cose, non c’è un significato. Come con il cubo di Rubik, sto girando i pezzi dell’equazione per capire quali sono le soluzioni possibili. L’obiettivo è far tornare questo nome, Estate romana, a rappresentare effettivamente quel significato. Del resto, è questo che ispira interamente la motivazione per cui io accetto di fare l’assessore alla Cultura: restituire a ciascuno il diritto di godere della cultura per crescere insieme come comunità civica.

Una sfida che sembra non facile per Roma.

– Prima di tutto, a mio avviso c’è una condizione politica che consente di fare i cambiamenti necessari. E poi, sono convinto che la partecipazione attiva alla vita culturale sia il primo meccanismo di ricostruzione del capitale sociale in una società completamente frammentata. Risolvere il problema progettuale dell’Estate romana, con questo valore, è un elemento profondamente radicato nell’esperienza che stiamo facendo qui. Con l’aggiunta che all’epoca dell’Estate romana c’erano pochi attori, adesso siamo di fronte a un’enormità. Potenzialmente si può fare enormemente di più, ma solo se si riesce a mettere ciascuno in gioco intorno allo stesso disegno. E’ una sfida molto complessa, ma noi ci stiamo lavorando.

Si può dire che la sua Estate romana rappresenta la cifra del suo lavoro da assessore?

– Forse no. Quando ho inventato Enzimi, la mia idea era che quella manifestazione fosse la punta dell’iceberg di una cosa che stava sotto. Abbiamo scoperto la punta, ma non riuscimmo a dare struttura a quello che c’era sotto. Adesso io ho deciso di ricominciare da un’altra parte. Quella di sotto, appunto: la riorganizzazione delle istituzioni culturali. Tutti si aspettano l’evento, la cosa fica. Chiunque sia arrivato qui ha fatto la cosa fica, ma la verità è che si è trattato di una pezza per mascherare il fatto che non si è riusciti a intervenire sul sistema di fondo. Quello che stiamo organizzando per il primo gennaio è una cosa fica, ma la cosa che mi interessa di più è che l’evento sia il prodotto di una cosa mai successa: il lavoro in comune delle istituzioni culturali, che si apre ad artisti, associazioni e gruppi. E sono convinto che, in un paio d’anni, l’effetto di questo lavoro che trasforma la funzione delle istituzioni culturali a opere alla città sarà molto visibile.

di Nicoletta Di Placido, giornalista professionista

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