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Da ‘Comandante’ all’amore per Roma, Johannes Wirix: “Torniamo ad essere umani, torniamo a sognare”

Dalla Mostra del Cinema di Venezia al cinema con ‘Comandante’, l’attore: "Lavorare nel cinema italiano è un sogno che si sta realizzando. Roma è l'unica città che mi fa sentire a casa"

Pubblicato:03-11-2023 17:15
Ultimo aggiornamento:03-11-2023 18:41
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(Photo credits: Rocco Giurato)

ROMA – Emozionato. Sorpreso. Sognante. Nato in Belgio, cresciuto in Olanda, ma il suo cuore batte per Roma perché “nessuna città mi fa sentire a casa come la Capitale“. Johannes Wirix si racconta ai microfoni dell’agenzia Dire, in occasione dell’uscita nelle sale di ‘Comandante’ di Edoardo De Angelis al fianco di Pierfrancesco Favino e Johan Heldenbergh. L’attore debutta sul grande schermo in un film italiano che ‘abbraccia’ tante culture. Interpreta Jacques Reclercq, tra i 26 naufraghi che il capitano Todaro (Favino) salva da una morte certa. Gli spazi sono stretti, l’aria è poca, così come il cibo. Ad essere immenso è il senso di umanità che il film mostra minuto dopo minuto. Dopo ‘Comandante’ “sogno di poter lavorare con Lukas Dhont e Paolo Sorrentino. Ma ciò che desidero di più è far sognare le persone”, ha detto Wirix.

Ciao Johannes, come stai?


Sto bene, sono emozionatissimo per ‘Comandante’ (dal 31 ottobre al cinema, ndr). Non capisco cosa stia succedendo in questi giorni, sono stato addirittura andato in tv per un’intervista. È bello far parte del successo di questo film, che si può vedere nelle sale di tutta Italia. Tutto questo mi fa commuovere perché questa storia l’ho vissuta non solo da attore ma anche e soprattutto da essere umano. Lavorare nel cinema italiano? È un sogno che si sta realizzando. 

La recitazione è arrivata in un momento difficile della tua vita. In che modo è stata salvifica?

Sì, la recitazione per me è stata salvifica. Mi ha dato una motivazione dopo la morte di mio padre. È stata una via di fuga per non dover sentire tutto il dolore, tutte le emozioni. Poi crescendo il rapporto è diventato più maturo. Questo mestiere mi ha permesso di imparare a conoscere di più le emozioni. Quando avevo 10 anni la recitazione per me era un luogo in cui mi sentivo il benvenuto, mi sentivo accolto. E l’arte ha unito me e mio padre, che era un vescovo. Lui, prima di morire, ha scritto due libri di poesie. E sulla sua scia ho scritto alcune poesie e un monologo, che ho portato all’esame finale delle scuole medie. In quel piccolo spettacolo c’era tutta la mia tristezza, tutto il mio dolore. Ci ho sempre trovato la speranza. L’arte, così come ‘Comandante’, fa proprio questo: dà speranza. All’inizio l’arte, la recitazione nel mio caso, può essere terapeutica poi diventa un mezzo di condivisione delle proprie emozioni. Questo in Belgio vuol dire la rottura di un tabù. Siamo un popolo molto riservato, abbiamo una certa pudicizia su ciò che proviamo. Un regista di un teatro in Olanda mi ha detto che nel buio di un cinema o di un teatro c’è un posto sicuro per qualsiasi persona. E questo è bellissimo. 

Sei nato in Belgio, sei cresciuto in Olanda. Ma parli un italiano perfetto. Come è sbocciato l’amore per l’Italia e in particolare modo per Roma?

L’Italia per noi è il Paese più romantico e affascinante dell’Europa. È un luogo che stimola l’immaginazione. Con la mia famiglia andavo sempre ad Olivetta, nel Nord Italia, ho dei bellissimi ricordi lì. Sì, sono nato in Belgio ma sono cresciuto vicino Amsterdam. Ci siamo trasferiti perché mio padre faceva il vescovo ad Haarlem. Sono tornato in Belgio per frequentare l’Accademia ad Anversa. Ma sentivo di aver bisogno di qualcosa di diverso. E così ho deciso di fare l’Erasmus per imparare un’altra lingua. E sono finito a Roma.  

Dove ti senti a casa?

Roma mi fa sentire a casa come nessun altro posto. È l’unico posto al mondo in cui sto bene da solo, mi faccio delle lunghissime passeggiate, mi perdo tra le vie della città. È una città complessa ma quando sono a Roma riesco a respirare. Questa città eterna è bella nella sua ambiguità . 

Debutti al cinema in ‘Comandante’ di Edoardo De Angelis al fianco di Pierfrancesco Favino. Cosa rappresenta per te questa opportunità?

‘Comandante’ è stato un regalo immenso. Questo film è simbolo dell’unione di culture, di diverse lingue, di persone provenienti da ogni parte del mondo. Un ritratto multiculturale, simbolo di questi tempi. Non è scontato fare un progetto come questo. È stata una grande opportunità accedere ad una grande umanità e sapere che esiste ancora, che c’è. Questa vita senza umanità non ce la meritiamo. 

Guardando questo film è inevitabile non pensare ai tanti migranti che ogni giorno non riescono ad essere accolti. Oggi perché ancora si fa fatica ad abbracciare la visione di Todaro che va oltre l’essere italiano, ma è una questione di essere umani?

Ci vuole tantissimo coraggio per fare una scelta come quella di Todaro. Non bisogna essere lui per fare una scelta del genere. Pensiamo di non avere questa capacità e ci abbandoniamo all’individualismo. Tutti possono fare la differenza sia se si tratta di prestare aiuto a degli sconosciuti sia se si tratta di ricucire un rapporto con una persona a noi cara. Tutti noi possiamo tornare ad essere umani, soprattutto in un momento difficile come questo in cui siamo circondati da guerre e conflitti. Sembra banale ma non lo è: noi siamo capaci di abbracciare l’incontro con l’altro. 

Nel film interpreti Jacques Reclercq, uno dei 26 naufraghi belgi, condannati a morte certa alla deriva su una zattera a centinaia di miglia dalla costa. Cosa ti ha insegnato? 

Mi sento vicino a Jacques Reclercq, nonostante lui abbia vissuto una situazione diversa dalla mia. Le nostre vite sono imparagonabili, però mi ha insegnato a godere delle cose semplici della vita. E questo non è scontato. 

Com’è stato girare in quel sommergibile che è stato ricreato per il film?

Abbiamo condiviso con la troupe spazi strettissimi e quel senso di claustrofobia. Questo ci ha permesso di entrare ancora di più nelle sfumature più profonde dei nostri personaggi e di improvvisare delle scene. In quello spazio piccolo c’era affetto e amore. 

Cosa speri possa accadere per te con l’uscita di ‘Comandante’?

Spero di lavorare in altri 1000 film come questo. Mi piacerebbe che mi vedessero tanti registi italiani, hanno un approccio unico. Il cinema italiano va oltre il concetto di lavoro. Qui si vivono emozioni. Certamente è faticoso ma c’è tanto cuore. Mi piacerebbe lavorare con Lukas Dhont (‘Girl’, ‘Close’, ndr) e Paolo Sorrentino e spero che abbiano la possibilità di vedere ‘Comandante’. 

Quale cambiamento ti piacerebbe vedere nel cinema? 

Mi piacerebbe vedere molte più storie in cui tutte le persone si sentano rappresentate. 

Cosa sogni?

Mi manca che la gente non si faccia più sorprendere. Siamo diventati un po’ pigri, siamo poco attenti ad ammirare o sognare. Io sogno di poter far sognare le persone. Io sono cresciuto con l’idea che nella vita bisogna lasciarsi sorprendere. Sogno di non aver mai paura di mostrare la mia sensibilità e la mia fragilità. Spero che il cinema possa continuare a rivoluzionarci con nuove storie e nuovi generi. Come dice Favino ‘Comandante ha lanciato un nuovo genere cinematografico, quello della pace’. 

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