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VIDEO | Da Quarticciolo a Gaza, la palestra popolare che insegna la boxe a donne e bambine

La storia del progetto ‘Boxe contro l’assedio’, che ha permesso a bambine e ragazze di Gaza di imparare l'arte della boxe

Pubblicato:03-11-2022 13:21
Ultimo aggiornamento:03-11-2022 13:57

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ROMA – Dal Quarticciolo a Gaza. La nota Palestra Popolare di pugilato, che si trova nel quadrante sud-est della Capitale, insegna l’arte della boxe alle bambine e alle ragazze che vivono in Palestina. È già alla sua quarta ‘missione’, ma gli allenatori non si prendono meriti e anzi tengono a precisare che “nessuno di noi ha portato questo sport in quel territorio” e che “non è grazie al nostro progetto che le giovani ragazze hanno iniziato a praticare la boxe” in quel ‘fazzoletto’ di Terra che si estende per circa 360 chilometri quadrati e che, con i suoi oltre 2 milioni di abitanti, ha una densità abitativa tra le più alte al mondo. Un ‘luogo invivibile’, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA), dove le condizioni di vita degli abitanti “peggiorano sempre di più”, anche per effetto del blocco ai commerci che Israele impone sulla Striscia dal conflitto del 2006. Ma è proprio in questo contesto così difficile che, nonostante tutto, alcune bambine e ragazze dai 5 ai 25 anni frequentano una piccola palestra allestita a Gaza con sacchi e corde di fortuna. Capitanate da Osama Ayoub, giovane tecnico locale, queste piccole e grandi donne, guantoni alle mani, ogni settimana si allenano con passione e sognano di poter competere con atlete di altri Paesi.

(“Boxe contro l’assedio 2022 – Il reportage da Gaza” di Daniele Napolitano)


Tutto questo è possibile grazie a ‘Boxe contro l’assedio’, un progetto italiano coordinato dalla ONG CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud) e dalle Palestre popolari del Quarticciolo e del Tufello, che dal 2018 ha creato diverse occasioni di scambio tra le atlete romane e palestinesi, consegnato decine di attrezzature sportive, ma anche e soprattutto aperto una palestra di pugilato a Gaza. In una “condivisione sportiva”, fanno sapere gli organizzatori, che intende lo sport come “strumento di miglioramento e riscatto personale e sociale”. Intanto, dopo uno stop forzato a causa della pandemia, il progetto ha ripreso la sua attività e l’ultimo viaggio a Gaza risale solo a poche settimane fa.


A raccontare alla Dire come è andata è Fabrizio Troya, tecnico della Giovanile di boxe nella Palestra popolare del Quarticciolo. Romano, 25 anni, Fabrizio allena i suoi allievi nella Capitale e nel frattempo frequenta la Facoltà di Scienze Motorie a Tor Vergata, ma appena può corre in Palestina, perché dopo esserci andato la prima volta ora non può più “farne a meno”, nonostante raggiungere Gaza non sia semplice, perché “bisogna fare i conti con la burocrazia” e oltrepassare tre frontiere nello spazio di 3 chilometri. “Noi siamo privilegiati- dice- perché con visti, passaporti e lettere d’incarico, in cinque ore riusciamo ad entrare. Ma per altri meno fortunati, ossia i palestinesi, sia entrare che uscire è un terno a lotto”.

(Credits @DanieleNapolitano)

Fabrizio, accompagnato nei suoi viaggi dal fotoreporter e videomaker Daniele Napolitano, anche lui romano e appassionato di boxe, racconta che insieme hanno costeggiato “quelle alte mura di cemento” che costituiscono la barriera di separazione tra Gaza e Israele e iniziato a capire “davvero”, attraverso i loro occhi, cosa vuol dire vivere in quelle terre. E questo, dopo aver avuto la possibilità di confrontarsi quotidianamente con ragazze e ragazzi che “tutti i giorni vivono una situazione surreale, pronti da un momento all’altro a rifugiarsi in qualche palazzo e sperare che le bombe non colpiscano le loro teste”. Le ultime escalation sono quelle del maggio 2021 e del giugno scorso: in entrambi i casi i raid dell’esercito israeliano contro postazioni dei gruppi armati palestinesi non hanno risparmiato i civili, con oltre 400 vittime totali.

Ma come è nata l’iniziativa? “Creare un collegamento con Gaza e con altre realtà complicate è uno degli obiettivi delle palestre popolari come la nostra- fa sapere il coach Troya alla Dire- Sentiamo il dovere di portare avanti temi importanti come l’antirazzismo, l’antisessismo e di combattere piaghe come la violenza di genere. Crediamo che lo sport sia uno degli strumenti più efficaci per creare ponti e costruirne uno verso Gaza, in un contesto così difficile, con donne di un’altra cultura e religione, per noi è una grande opportunità oltre che una occasione di crescita”.

Come vi spiegate tutta questa affluenza femminile? “Non è un progetto rivolto esclusivamente alle ragazze, a dire il vero, ma quest’anno, e ne siamo lieti, ci siamo ritrovati ad allenare un folto gruppo di sole donne. Osama è il principale preparatore tecnico a Gaza e il suo intento è proprio quello di sviluppare un progetto di boxe al femminile. Il gruppo è in crescita ed attualmente è misto, composto sia da bambine che hanno appena iniziato a fare pugilato sia da adulte che lo praticavano già da qualche mese o anno. Il pugilato è per tutti, è un’arte nobile che insegna l’autodifesa, e ormai da anni sempre più ragazze lo praticano. Lo stesso vale per le atlete di Gaza, loro hanno imparato benissimo a difendersi in strada e speriamo che attraverso il pugilato riescano a sentirsi sempre più sicure, giorno dopo giorno”.

Che tipo di attività avete proposto e proponete a queste giovani atlete? “Parlo a titolo collettivo, sia per la Palestra Popolare del Quarticciolo, che rappresento, sia per la Palestra Popolare Valerio Verbano del Tufello. Quello che ci siamo proposti di fare è stato ripartire dai fondamentali del pugilato, in questi anni abbiamo cercato di trasmettere a queste ragazze e ragazzi i suoi insegnamenti di base, perché se portati ad alti livelli fanno la differenza. Uno dei pugili che ho allenato, Amr Abdallah, è riuscito per esempio ad avere un permesso per uscire da Gaza e ora sta partecipando ad una competizione in Giordania”.

Come si fa ad insegnare la non violenza attraverso una disciplina da combattimento? “La violenza è quando ci si picchia in strada o quando si viene aggrediti da un branco; il pugilato insegna invece prima di tutto il rispetto dell’avversario, a difendere i più deboli e a combattere le violenze stesse, oltre a mantenere la calma nelle situazioni di difficoltà. È una disciplina a tutti gli effetti, regolamentata da leggi ben precise e da un arbitro che le fa rispettare. Gli atleti si allenano per sviluppare la loro forza fisica e perfezionare la tecnica, ma sul ring non c’è una prevaricazione”.

È complicato insegnare la boxe in un contesto difficile come Gaza, dove le violenze e le tensioni sono all’ordine del giorno? “La boxe, attraverso il corpo, aiuta anche a sfogare alcuni disagi psicologici. A Gaza sono molti i giovani con problemi di salute mentale, naturalmente la maggior parte di loro non vive con serenità quella condizione di ‘chiusura’, quindi uno sport come il pugilato sicuramente aiuta a distrarre la mente. Chi pensa che possa incitare alla violenza sbaglia, avviene esattamente il contrario”.

Lo sport anche come evasione, quindi? “Assolutamente sì. Avendo noi avuto la possibilità di stare a Gaza per periodi prolungati, ci siamo resi conto del grande limite vissuto dai palestinesi, che di fatto abitano in un ‘carcere a cielo aperto’ e subiscono gli effetti del conflitto con Israele. Per i palestinesi è molto difficile ottenere il passaporto e quindi il diritto di uscire dal territorio e per questo hanno conoscenze limitate. In pochi riescono ad ‘evadere’ attraverso internet e in questo senso anche il pugilato diventa la loro finestra sul mondo”.

Ma cosa vi raccontano i giovani di Gaza? “In Palestina c’è una diffusa sofferenza psicologica e il territorio non offre molti strumenti di svago. Nonostante questo, i nostri atleti vorrebbero far capire al mondo intero che anche a Gaza c’è possibilità di crescere, divertirsi e fare sport. Non racconterò mai di Gaza come un posto di morte, ma sempre come un luogo di vita. Ed è questo il messaggio che vogliono trasmettere. Soprattutto le ragazze e i ragazzi più giovani mi hanno insegnato la ‘resistenza a vivere’ e a non abbattersi di fronte alle difficoltà. Di certo loro hanno insegnato a me più di quanto io abbia fatto per loro con lo sport”.

Andrà avanti il progetto ‘Boxe contro l’assedio’? “Ovviamente ci auguriamo di sì. Negli anni siamo riusciti ad aprire una palestra e abbiamo portato a Gaza varie attrezzature, tra colpitori, guanti, sacchi, caschetti, paradenti e fascette. Ma ci sarebbe bisogno di altro materiale sportivo, per questo continuiamo a raccogliere fondi a sostegno della popolazione palestinese durante gli incontri che organizziamo a Roma nella nostra Palestra popolare oppure nella Casa di quartiere del Quarticciolo. Questo anche per finanziare i nostri prossimi viaggi, perché vogliamo dare continuità al progetto e il nostro obiettivo è di tornare a Gaza il prima possibile”.

LE TESTIMONIANZE DI ALCUNE BOXEUR DI GAZA

“Mi chiamo Lamees Abu El Gumssan, sono una bambina di 8 anni e frequento la quarta elementare. Da tre anni pratico la boxe e amo così tanto il pugilato perché mi insegna le tecniche di autodifesa. Il mio modello è Mike Tyson e mi piacerebbe partecipare a competizioni nazionali e internazionali. Voglio dire a chi pensa che il pugilato sia solo ‘da maschi’ che sbaglia, perché questo sport insegna a tutti a difendersi ed è per tutti”.

“Mi chiamo Farah Abu El Gumssan, ho 15 anni e pratico la boxe da 4 anni. Amo molto il pugilato perché mi ha aiuta ad acquisire le tecniche di autodifesa. Quando pubblico storie su Instagram ricevo molte critiche e le persone addirittura mi scrivono che dovrei smettere perché è uno sport da maschi. Rispondo sempre che non è vero e che la boxe invece è per tutti. Spero un giorno di poter diventare una campionessa a livello internazionale e di essere un orgoglio per il mio Paese”.

“Mi chiamo Sama e ho 22 anni. Quando pratico la boxe mi sento felice, forte e sicura di me. Sono molto orgogliosa di far parte di un club di pugilato qui a Gaza, perché attraverso questo sport imparo sempre nuove abilità. Mi piacerebbe che le persone abbandonassero gli stereotipi legati a Gaza e iniziassero a vederne l’immagine reale. Non sto negando il fatto che Gaza abbia subito attacchi, ma in questo territorio esistono anche realtà bellissime che vorrei la gente conoscesse. Spero che sempre più ragazze vengano nella nostra palestra e che il nostro capitano riesca a portarci alle Olimpiadi”.

“Mi chiamo Ola Louz, ho 24 anni e sono una studentessa universitaria specializzata in Multimedia. Frequento la palestra di boxe a Gaza da circa due mesi e ho deciso di iscrivermi perché penso che questo sport possa aiutarmi, oltre che a difendermi, anche a tirare fuori tutte le energie negative. Nel nostro club ci sentiamo come una vera e propria famiglia, ci aiutiamo e sosteniamo a vicenda. Il nostro desiderio è quello di poter partecipare a competizioni internazionali affinché il mondo sappia di noi”.

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