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“Basta mutilazioni genitali femminili, si può cambiare”: la storia di Asha

Da Mogadiscio all'Italia con la sua Ong: "Convinco a non mutilare"

Pubblicato:02-02-2018 09:35
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 12:25

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ROMA – “Ho visto donne anziane costrette ad urinare in piedi, perché il taglio delle labbra e la cucitura riduce l’elasticità e quindi la possibilità di chinarsi. Nel mio Paese le mutilazioni genitali femminili sono ancora molto diffuse, soprattutto nelle zone rurali, per questo ho deciso di partire dalle ‘ostetriche tradizionali’, a cui spiego l’anatomia dell’apparato genitale femminile e le conseguenze negative che le donne incontreranno per tutta la vita, e la risposta è stata incoraggiante: la metà di loro ha deciso di non farlo più“. E’ questa la testimonianza che Asha Omar racconta all’agenzia DIRE.

LA STORIA DI ASHA

Asha, dopo 15 anni in Italia per specializzarsi in oncologia e ginecologia, ha deciso di tornare in Somalia, e oggi si divide tra il suo lavoro di medico in un ospedale di Mogadiscio e la sensibilizzazione delle donne contro le mutilazioni tramite l’associazione da lei fondata Save our mothers: “Salviamo le nostre madri- spiega- perché troppe donne mutilate non sopravvivono al parto“. E nella sua lotta neanche gli Shabaab sono riusciti a fermarla. “I problemi ci sono stati quando sono rientrata dall’Italia” dice.

Gli islamisti integralisti degli Shabaab ce l’hanno con gli stranieri ma anche con chi torna dall’Occidente, e per ben due volte mi hanno minacciata di morte. Ma non mi sono mai lasciata intimorire”.


Un impegno che le è valso vari premi all’estero, tra cui la Colomba d’oro per la pace dell’Archivio Disarmo nel 2013. Ma la strada è lunga: “Ancora oggi all’ospedale di Mogadiscio accogliamo molte donne che, dalle campagne, vengono a partorire da noi, perché le difficoltà che incontrano sono troppe”.

I DANNI DEL ‘TAGLIO’

Il cosiddetto “taglio” è una pratica che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), coinvolge oltre 200 milioni di donne in 30 Paesi del mondo, e causa danni seri e permanenti.

Da un lato psicologici, dato che in alcuni Paesi si effettua anche a partire dai quattro anni d’età. Da un altro quelli fisici: una donna tagliata avrà difficoltà ad urinare, proverà dolore ad ogni ciclo mestruale, non avrà una vita sessuale serena e rischierà di morire al momento del parto. Ma estirpare la pratica dalle comunità – in particolare dall’Africa subsahariana e dell’Asia orientale – non è semplice, poiché affonda le radici in un misto di credenze culturali e religiose.

Non ovunque si presenta in modo uguale: può consistere in un piccolo e “innocuo” taglio in prossimità del clitoride per far uscire una goccia di sangue “rituale”, fino a interventi molto invasivi, che prevedono la rimozione parziale o totale delle piccole labbra, l’escissione della clitoride e la chiusura quasi totale della vulva. In generale però, la circoncisione femminile è considerata un momento di passaggio fondamentale nella vita di una donna, che serve a proteggerne la reputazione. Una donna “non tagliata” è causa di imbarazzo per la famiglia e rischia di non trovare un uomo disposto a sposarla, per questo le madri e le nonne sono spesso più decise dei padri nel sottoporre le figlie a questo rito.

A effettuarla non sono medici esperti, né ci si reca in ospedale o in una clinica attrezzata: una parente stretta o gli anziani del villaggio intervengono con metodi rudimentali, che causano ulteriore strazio, nonché infezioni a volte letali. “Le donne in Somalia si stanno rendendo conto che non è un comportamento sano e stanno lentamente cambiando idea”, assicura Asha, che con la sua associazione fa parte di quella rete di “ambasciatori del cambiamento” sostenuti anche da molte ong internazionali.

Un esempio è Action Aid attraverso il progetto After. Rahel, una ex tagliatrice tanzaniana, è entrata a farne parte: “Era una tradizione della mia famiglia, a partire da mia madre”, dice la donna, che oggi si batte per abolire questa tradizione. “Vorrei dire a tutte le comunità che praticano le mutilazioni di smettere, perché le implicazioni negative per la salute delle donne sono molte”.

Amref Health Africa invece ha incontrato Nice, in Kenya: a 9 anni, dopo aver perso i genitori, è risucita a convincere i nonni a non essere tagliata. “Volevo andare a scuola”. E’ questo che ora racconta alle giovani e ai capi delle comunità che incontra, e secondo Amref col suo lavoro di sensibilizzazione ha contribuito a salvarne oltre 10mila nel suo Paese. Con le migrazioni, il problema è arrivato fino in Europa: secondo il Parlamento europeo oltre 500mila straniere sono mutilate: di queste tra le 60 e le 80mila residenti in Italia, secondo studi dell’Università Bicocca di Milano.

LA DIFFUSIONE

L’ateneo meneghino rivela inoltre che il gruppo più numeroso nel nostro Paese è quello nigeriano che, insieme alla comunità egiziana, costituisce oltre la metà del totale delle donne con mutilazioni genitali. Inoltre le donne provenienti dalla Somalia presentano una prevalenza più alta – l’83,5% del totale – seguite da Nigeria (79,4%), Burkina Faso (71,6%), Egitto (60,6%) ed Eritrea (52,1%).

Essendo considerata una violazione dei diritti umani la pratica è vietata dal nostro codice penale, così come in vari Paesi in cui è presente. Tuttavia, secondo un rapporto Unicef del 2013 “le legislazioni da sole non sono sufficienti: tutti gli attori, governi, ong e comunità devono promuovere un cambiamento sociale positivo attraverso programmi e politiche”. Anche Asha ne è convinta: “Noi riceviamo supporto da parte del governo somalo alle nostre attività. Per il momento però è solo morale: si tratta di un esecutivo giovane (le presidenziali si sono svolte a febbraio 2017, ndr), e ancora non ha la forza di sostenerci materialmente, tuttavia sappiamo che stanno programmando di farlo in futuro”. Lo studio Unicef rivela un altro dato: “Un numero sempre più significativo di uomini e ragazzi rifiuta la pratica. In particolar modo in tre Paesi (Ciad, Guinea e Sierra Leone) sono addirittura più gli uomini che le donne a volere la fine delle mutilazioni”.

“BASTA MUTILAZIONI”

Il fenomeno dunque, per le sue forti implicazioni sociali, ha aperto un ampio dibattito tra studiosi e operatori del settore, alcuni preoccupati che, convincendo le giovani a sottrarsi a tale pratica, si rischi di condannarle allo stigma sociale e quindi all’esclusione dalle comunità, compromettendo comunque il loro futuro. “Non è così” chiarisce Asha Omar. “Le comunità sono pronte al cambiamento. Le donne lo vogliono, lo chiedono. Nella mia esperienza ho capito che il dialogo è la cosa più importante: a volte mi è bastato parlare dieci minuti con un’anziana per dimostrarle che le mutilazioni danneggiano non solo il futuro delle donne ma anche dei figli – che a volte muoiono per le difficoltà del parto – e quindi incidono sullo sviluppo della popolazione. E hanno cambiato idea”.

 

infografica mutilazioni

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