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ROMA – “Ho visto donne anziane costrette ad urinare in piedi, perché il taglio delle labbra e la cucitura riduce l’elasticità e quindi la possibilità di chinarsi. Nel mio Paese le mutilazioni genitali femminili sono ancora molto diffuse, soprattutto nelle zone rurali, per questo ho deciso di partire dalle ‘ostetriche tradizionali’, a cui spiego l’anatomia dell’apparato genitale femminile e le conseguenze negative che le donne incontreranno per tutta la vita, e la risposta è stata incoraggiante: la metà di loro ha deciso di non farlo più“. E’ questa la testimonianza che Asha Omar racconta all’agenzia DIRE.
Asha, dopo 15 anni in Italia per specializzarsi in oncologia e ginecologia, ha deciso di tornare in Somalia, e oggi si divide tra il suo lavoro di medico in un ospedale di Mogadiscio e la sensibilizzazione delle donne contro le mutilazioni tramite l’associazione da lei fondata Save our mothers: “Salviamo le nostre madri- spiega- perché troppe donne mutilate non sopravvivono al parto“. E nella sua lotta neanche gli Shabaab sono riusciti a fermarla. “I problemi ci sono stati quando sono rientrata dall’Italia” dice.
“Gli islamisti integralisti degli Shabaab ce l’hanno con gli stranieri ma anche con chi torna dall’Occidente, e per ben due volte mi hanno minacciata di morte. Ma non mi sono mai lasciata intimorire”.
Un impegno che le è valso vari premi all’estero, tra cui la Colomba d’oro per la pace dell’Archivio Disarmo nel 2013. Ma la strada è lunga: “Ancora oggi all’ospedale di Mogadiscio accogliamo molte donne che, dalle campagne, vengono a partorire da noi, perché le difficoltà che incontrano sono troppe”.
Il cosiddetto “taglio” è una pratica che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), coinvolge oltre 200 milioni di donne in 30 Paesi del mondo, e causa danni seri e permanenti.
Da un lato psicologici, dato che in alcuni Paesi si effettua anche a partire dai quattro anni d’età. Da un altro quelli fisici: una donna tagliata avrà difficoltà ad urinare, proverà dolore ad ogni ciclo mestruale, non avrà una vita sessuale serena e rischierà di morire al momento del parto. Ma estirpare la pratica dalle comunità – in particolare dall’Africa subsahariana e dell’Asia orientale – non è semplice, poiché affonda le radici in un misto di credenze culturali e religiose.
Non ovunque si presenta in modo uguale: può consistere in un piccolo e “innocuo” taglio in prossimità del clitoride per far uscire una goccia di sangue “rituale”, fino a interventi molto invasivi, che prevedono la rimozione parziale o totale delle piccole labbra, l’escissione della clitoride e la chiusura quasi totale della vulva. In generale però, la circoncisione femminile è considerata un momento di passaggio fondamentale nella vita di una donna, che serve a proteggerne la reputazione. Una donna “non tagliata” è causa di imbarazzo per la famiglia e rischia di non trovare un uomo disposto a sposarla, per questo le madri e le nonne sono spesso più decise dei padri nel sottoporre le figlie a questo rito.
A effettuarla non sono medici esperti, né ci si reca in ospedale o in una clinica attrezzata: una parente stretta o gli anziani del villaggio intervengono con metodi rudimentali, che causano ulteriore strazio, nonché infezioni a volte letali. “Le donne in Somalia si stanno rendendo conto che non è un comportamento sano e stanno lentamente cambiando idea”, assicura Asha, che con la sua associazione fa parte di quella rete di “ambasciatori del cambiamento” sostenuti anche da molte ong internazionali.
Un esempio è Action Aid attraverso il progetto After. Rahel, una ex tagliatrice tanzaniana, è entrata a farne parte: “Era una tradizione della mia famiglia, a partire da mia madre”, dice la donna, che oggi si batte per abolire questa tradizione. “Vorrei dire a tutte le comunità che praticano le mutilazioni di smettere, perché le implicazioni negative per la salute delle donne sono molte”.
Amref Health Africa invece ha incontrato Nice, in Kenya: a 9 anni, dopo aver perso i genitori, è risucita a convincere i nonni a non essere tagliata. “Volevo andare a scuola”. E’ questo che ora racconta alle giovani e ai capi delle comunità che incontra, e secondo Amref col suo lavoro di sensibilizzazione ha contribuito a salvarne oltre 10mila nel suo Paese. Con le migrazioni, il problema è arrivato fino in Europa: secondo il Parlamento europeo oltre 500mila straniere sono mutilate: di queste tra le 60 e le 80mila residenti in Italia, secondo studi dell’Università Bicocca di Milano.
L’ateneo meneghino rivela inoltre che il gruppo più numeroso nel nostro Paese è quello nigeriano che, insieme alla comunità egiziana, costituisce oltre la metà del totale delle donne con mutilazioni genitali. Inoltre le donne provenienti dalla Somalia presentano una prevalenza più alta – l’83,5% del totale – seguite da Nigeria (79,4%), Burkina Faso (71,6%), Egitto (60,6%) ed Eritrea (52,1%).
Essendo considerata una violazione dei diritti umani la pratica è vietata dal nostro codice penale, così come in vari Paesi in cui è presente. Tuttavia, secondo un rapporto Unicef del 2013 “le legislazioni da sole non sono sufficienti: tutti gli attori, governi, ong e comunità devono promuovere un cambiamento sociale positivo attraverso programmi e politiche”. Anche Asha ne è convinta: “Noi riceviamo supporto da parte del governo somalo alle nostre attività. Per il momento però è solo morale: si tratta di un esecutivo giovane (le presidenziali si sono svolte a febbraio 2017, ndr), e ancora non ha la forza di sostenerci materialmente, tuttavia sappiamo che stanno programmando di farlo in futuro”. Lo studio Unicef rivela un altro dato: “Un numero sempre più significativo di uomini e ragazzi rifiuta la pratica. In particolar modo in tre Paesi (Ciad, Guinea e Sierra Leone) sono addirittura più gli uomini che le donne a volere la fine delle mutilazioni”.
Il fenomeno dunque, per le sue forti implicazioni sociali, ha aperto un ampio dibattito tra studiosi e operatori del settore, alcuni preoccupati che, convincendo le giovani a sottrarsi a tale pratica, si rischi di condannarle allo stigma sociale e quindi all’esclusione dalle comunità, compromettendo comunque il loro futuro. “Non è così” chiarisce Asha Omar. “Le comunità sono pronte al cambiamento. Le donne lo vogliono, lo chiedono. Nella mia esperienza ho capito che il dialogo è la cosa più importante: a volte mi è bastato parlare dieci minuti con un’anziana per dimostrarle che le mutilazioni danneggiano non solo il futuro delle donne ma anche dei figli – che a volte muoiono per le difficoltà del parto – e quindi incidono sullo sviluppo della popolazione. E hanno cambiato idea”.
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