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Non solo incendi, l’Amazzonia brucia anche per il gas flaring

In Ecuador lo studio degli esperti dell'Università di Padova

Pubblicato:01-10-2019 10:13
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 15:46

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LAGO AGRIO (ECUADOR) – L’Amazzonia ecuadoriana brucia, ma non solo a causa di roghi appiccati per ampliare la frontiera agricola: lo denuncia uno studio dell’Università di Padova, fondato su mappature e rilievi termometrici delle isole di calore generate dai “mecheros“, gli inceneritori di gas di scarto associati all’estrazione di idrocarburi. La ricerca è frutto di una missione sul campo seguita a un lavoro preparatorio basato sulle immagini scattate di notte dal satellite Suomi-Npp della Noaa, la National Oceanic and Atmospheric Administration.

“Dopo oltre 380 rilievi termometrici di suolo ed aria stiamo modellizzando l’isola di calore generata in ciascun sito, sino a una distanza di 200 metri dalla fiamma” spiega all’agenzia Dire via e-mail Francesco Facchinelli, membro del gruppo di ricerca del dipartimento Icea su Cambiamenti climatici, territori e diversità: “In alcuni siti abbiamo misurato temperature della superficie del suolo oltre i cento gradi”. I rilievi sono stati effettuati quest’anno in prossimità delle 12 installazioni più grandi dell’Amazzonia ecuadoriana, molte delle quali costruite negli anni ’70 dalla multinazionale americana Texaco e oggi gestite da partecipate statali come Petroamazonas e Petroecuador. “Si tratta di ‘mecheros’ che bruciano ogni anno da 30 a 100 milioni di metri cubici di gas, principalmente metano” sottolinea Facchinelli. La premessa, sua e dei colleghi guidati dal professor Massimo De Marchi, è che il cosiddetto “gas flaring” costituisce una fonte di inquinamento chimico, termico e luminoso che ha effetti sia sugli ecosistemi che sulle comunità locali. Secondo i ricercatori contattati dalla ‘Dire’, in Ecuador preoccupa lo sfruttamento delle risorse petrolifere nell’area dello Yasunì, territorio ancestrale degli indigeni waorani proclamato dall’Unesco Riserva della biosfera. “In prossimità di questa zona gli impatti socio-ambientali delle varie fasi dell’estrazione sono ampiamente documentati” sottolinea Salvatore Pappalardo. “La degradazione degli ecosistemi tropicali solitamente viene innescata con l’apertura della prima strada, chiamata ‘first cut‘; seguono gli effetti di frammentazione degli habitat e di riduzione di biodiversità”. Per studiare gli impatti su ecosistemi e comunità sono stati condotti monitoraggi con droni e misure ambientali a terra. “Il primo effetto, ancora poco studiato, è l’impatto termico delle fiamme e la degradazione del delicato ecosistema del bosco tropicale” riprende Facchinelli: “Parliamo di microclima, vegetazione, entomofauna e disponibilità idrica”. Il filo rosso che attraversa la ricerca è l’alleanza con istituti e associazioni locali, dagli atenei ecuadoriani di Puyo e Quito alla Fundacion Alejandro Labaka e alla Union de los Afectados Para Texaco (Udapt), l’associazione delle vittime della multinazionale nordamericana che tra il 1964 il 1992 inondò le province amazzoniche con 68 miliardi di litri di scarti petroliferi, solventi chimici e acque tossiche. “Grazie al rapporto con le comunità che vivono nelle aree di potenziale impatto dai ‘mecheros’ – sottolinea Pappalardo – abbiamo raccolto testimonianze di maestri, indigeni e campesinos“.


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