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Preside Alberto Capria: “Insegnare è vocazione, va scelto all’università”

Il dirigente di Vibo Valentia contro i piani ‘b’: “Serve un piano per preparare gli specialisti a diventare docenti”

Pubblicato:01-07-2021 13:15
Ultimo aggiornamento:01-07-2021 13:16

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ROMA – “Buttarsi nella scuola solamente per assicurarsi lo stipendio perché il titolo di studio te lo permette fa danni inenarrabili. L’IdO, ad esempio, da anni si batte per la didattica speciale per i ragazzi in sostegno, per ragazzi autistici e così via. Facciamo una riflessione sul sostegno e le classi di concorso: non ci può più essere il titolo polivalente, cioè io frequento un corso di formazione e divento praticamente specialista di tutto l’ampio spettro delle disabilità. È impossibile questo se si vuole investire su una serietà scolastica. Altrimenti continueremo a studiare il modello scolastico finlandese pensando che sia il toccasana e dimenticando che l’Italia è completamente diversa dalla Finlandia”. A parlare con la Dire è Alberto Capria, dirigente scolastico in Calabria. Secondo Capria – che nei giorni scorsi è uscito con una lettera sul sito di news ilvibonese.it – nella scuola italiana c’è un problema di preparazione della classe docente, un problema che riguarda la didattica e che investe, a monte e a valle, il sistema di formazione dei docenti stessi. Un problema su cui, inoltre, le riforme dei ministeri succedutisi non avrebbero di fatto inciso per niente. Con la Dire, Capria ha ripreso i contenuti di quella lettera per enucleare quelli che a suo dire sarebbero i principali nodi da sciogliere e le possibili soluzioni.

Nella lettera lamenta il fatto che, a suo avviso, la scelta di insegnare stia diventando sempre più un piano ‘b’ elaborato dopo la laurea anziché una ‘vocazione’.

“Non ci possiamo più permettere il lusso che ci siano dei docenti specialisti nella propria disciplina, i quali saranno pure degli ottimi ricercatori universitari ma senza il taglio didattico giusto. Ecco perché penso che se tu vuoi fare l’insegnante lo devi decidere già al momento dell’iscrizione all’università. Non dico ovviamente di introdurre un corso di laurea in ‘Docenza’, dico invece di prevedere all’interno dei corsi di laurea, da lettere a fisica a giurisprudenza, dei percorsi con delle tappe definite dalla struttura universitaria stessa: esami di didattica speciale, pedagogia generale, didattica generale, pedagogia e psicologia dell’età evolutiva. Soprattutto nel segmento 0-16 anni, che poi è il segmento obbligatorio, chi sta in cattedra deve saper insegnare. Anticamente si diceva che insegnare fosse una missione. Si immagini che uno faccia il chirurgo senza vocazione, sarà un pessimo chirurgo. Ma l’ottimo calciatore non per forza riesce a diventare un ottimo allenatore. Per questo servono un percorso universitario personalizzato e un piano nazionale di formazione docenti serio e modulare, gestito da formatori seri e possibilmente strutturato dopo aver parlato con molti docenti e dirigenti perché solo così si ottiene uno spaccato dell’Italia”.


La seguo nel ragionamento. Tenendo conto delle peculiarità del contesto, “la scuola deve essere capace di studiare e proporre soluzioni innovative e scenari nuovi che anticipino le domande” poste dal cambiamento sociale. Lo ha scritto lei nella lettera.  Quali scenari e quali strumenti? E come fare? Come fate nelle due scuole che dirige a Vibo Valentia?

Premettiamo che le scuole ormai lavorano con il piano triennale dell’offerta formativa per cui sono in grado di immaginare una programmazione di medio e ampio raggio e quindi realizzare, attraverso la didattica per competenze, un curriculum verticale ai tre ordini di scuola. L’esperienza positiva dell’istituto comprensivo ‘De Amicis’ è quella di essere riuscita a strutturare, ancora prima delle indicazioni del 2012, un progetto d’istituto che abbraccia l’infanzia, la primaria e la secondaria di primo grado. Abbiamo potuto farlo ma all’inizio ci siamo scontrati con resistenze mentali da parte dei docenti ed ecco perché parlo della necessità di un piano di formazione serio che riguardi nello specifico la didattica. Sicuramente il fiore all’occhiello del ‘De Amicis’ ma anche del convitto ‘Filangieri’ è la continuità didattica in verticale. Noi scegliamo un argomento all’anno che decliniamo all’interno dei tre ordini di scuola e quell’argomento diventa la tematica del progetto d’istituto. Così si dà l’idea di essere un istituto comprensivo. Quindi, certamente, un curricolo verticale strutturato in modo serio, e non il copia e incolla, potrebbe essere una delle soluzioni. A ciò deve seguire anche un ripensamento degli ambienti di apprendimento: in linea con la natura delle attività, gli ambienti dovrebbero essere modulari, componibili e ricomponibili.

Può fare un esempio pratico di questo tipo di progetti?

Qualche anno fa, quando ancora il tema dell’immigrazione non era particolarmente presente nel dibattito non solo politico ma anche sociale In Italia, al ‘De Amicis’ abbiamo fatto il nostro progetto d’istituto sul tema del mare che unisce, il nostro Mediterraneo. Le scuole d’infanzia, primaria e secondaria ci hanno lavorato, ovviamente con modalità didattiche diverse per età, ma alla fine dell’anno hanno messo in scena un’unica rappresentazione.

Proviamo a spiegare i vantaggi della continuità didattica, soprattutto dal punto di vista dell’apprendimento.

Intanto si costruisce comunità educante perché ci si unisce tutti verso un obiettivo comune. Questo rafforza lo spirito di gruppo e di appartenenza alla scuola. Quando parlo di appartenenza alla comunità educante mi riferisco anche ai genitori, che infatti ci sono molto più vicini con questo tipo di approccio, così come al personale Ata. Dal punto di vista dell’apprendimento, abbiamo dei risultati molto positivi. Il fatto di condividere il lavoro relativo a un unico progetto, ti consente di realizzare attività mirate al conseguimento di competenze più che di conoscenze. Noi lavoriamo moltissimo coi diari di bordo, ad esempio, facciamo molte uscite didattiche e moltissime attività pratiche; questo modo di lavorare è facilitato proprio dal curriculum verticale, cosa che non puoi realizzare se entri in classe e chiudi la porta. Fisiologicamente, nella continuità didattica, c’è contaminazione.

…Il modello finlandese?

Sì, ma il punto è che la scuola è parte di un sistema più ampio. In Finlandia funzionano i trasporti, il welfare, la politica, c’è un livello etico alto e quindi funziona la scuola. Io ho girato tutta Europa e non ho trovato un paese in cui non funzionino sanità, welfare e trasporti mentre la scuola sì. Il sistema scolastico finlandese andrebbe studiato non per scimmiottarlo ma per creare una rivoluzione scolastica che ahimè non vedrò io, forse i miei nipoti. I cambiamenti nella scuola hanno bisogno di tempi distesi, almeno dieci anni, per avere effetti positivi o negativi. Invece le riforme seguono l’andamento politico e tra l’una e l’altra passano in media tre anni.

A proposito di riforme, lei ha sostenuto che “occorre oltrepassare obsolete prassi didattiche ancora molto presenti e stantie ripetizioni di riti e simulacri annuali (leggi esami del 1° ciclo e di (im)maturità)”. Non è il primo a farlo, qual è esattamente la sua critica?

Intanto l’esame del primo ciclo non conclude un bel niente perché è stato introdotto l’innalzamento dell’età dell’obbligo scolastico a 16 anni. Inoltre, per come è concepito, è inutile e infatti da più parti si sta pensando di eliminarlo, però pare che ci sia bisogno di una riforma costituzionale per farlo e quindi si immagini i tempi. Io sarei più favorevole a recuperare il vecchio esame di qualifica che si sosteneva alla fine del biennio di superiori perché a 16 anni tu puoi anche dire basta, faccio l’esame professionalizzante e vado a lavorare. Gli esami di maturità invece rasentano il ridicolo.

Innanzitutto, non ho capito perché in Italia non si siano potuti bloccare per la pandemia, come hanno fatto Francia, Inghilterra, Olanda e Spagna per dire. Io li avrei sospesi, soprattutto lo scorso anno quando i rischi sanitari erano enormi. Quanto al loro svolgimento, intanto la presenza di un presidente esterno: perché non lo può fare il preside della scuola che ben conosce gli alunni e le attività? E i commissari, due interni e due esterni che in quattro giorni decidono se il ragazzo è idoneo al 60 o al 100. E le prove scritte: che senso ha valutare di nuovo il ragazzo se l’abbiamo già valutato dieci giorni prima negli scrutini? Io penserei gli esami di maturità esattamente come sono quelli del primo ciclo di istruzione.

Allora diciamo che, tolto il presidente esterno, è d’accordo con la formula del maxi-orale con i commissari interni e l’elaborato?

Sì, io farei come quest’anno. Lo vedrei proprio come una discussione di laurea in cui tu discuti di fronte a docenti che ti conoscono. Forse così diminuirebbero anche i 100 e lode che soprattutto al sud proliferano…

In che senso?

Se a Federico ho dato 7 come voto di ammissione all’esame, è difficile che Federico esca con 10. I componenti esterni invece possono dare o un giudizio particolarmente positivo o al contrario uno particolarmente negativo ma improvvisato perché non conoscono ragazzi e ragazze. Come fa in mezz’ora a dare un giudizio ponderato sulla maturità del ragazzo che ha di fronte? Quello che non sopporto è l’idea che ci siano delle cose intoccabili nella scuola. Per definizione la scuola è evoluzione. In un mondo che cambia vertiginosamente, la scuola è perlopiù ferma. I ragazzi che vanno via il 25 dicembre tornano diversi il 7 gennaio. È possibile allora che la scuola rimanga ferma? Che la scuola sia ancora banchi, sedie, docenti in cattedra che parlano e assegnano i compiti, studenti che devono ripetere le lezioni magari con le stesse parole dei docenti? Mi sembra la canzone di Venditti, ‘Compagno di scuola’: “Le otto e mezza tutti in piedi, il presidente, la croce e il professore che ti legge sempre la stessa storia, sullo stesso libro, nello stesso modo, con le stesse parole da quarant’anni di onesta professione”. La ripetitività non ci può essere nella scuola, secondo me.

A inizio di ogni anno scolastico si passano i primi mesi a riempire con fatica le piante organiche. Se noi, come suggerisce lei, lasciamo che futuri potenziali docenti si auto-selezionino per vocazione, non rischiamo di finire in un circolo vizioso per cui alla fine facciamo ancora più fatica a trovarne?

Questo è un rischio. Fermo restando che sarebbe auspicabile arrivare a settembre pronti, dato che oggi sappiamo già quando la scuola ricomincerà. Ma non so se fa più danno che non venga concessa una classe per mancanza di personale o che la classe in più venga concessa a una persona che, mentre insegna, pensa a cosa fare come seconda o terza occupazione. I danni che si fanno nella scuola non li paga solo il singolo ma la società intera: la scuola non ha bisogno, secondo me, di più insegnanti, ma di più insegnanti preparati.

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