(DIRE - Notiziario Sanita') Roma, 13 ott. - "Com'e' possibile mi
domando a volte, camminare sui prati verdi ed essere tristi?
Essere immersi nel caldo del sole e, mentre tutto intorno
sorride, avere l'angoscia nel cuore?
Lasciate a noi le vostre tristezze, a noi che non possiamo andare
sui prati e non vediamo mai il sole!": termina cosi' il film "La
Pecora Nera" (2010), favola triste ambientata in un manicomio,
presentata alla 67° edizione della Mostra del Cinema di
Venezia, che ha segnato il debutto sul grande di Ascanio
Celestini e quello di Alberto Paolini, ex degente del Santa Maria
della Pieta' di Roma, autore e voce di questi versi struggenti.
78 anni, lo sguardo fisso sotto l'inseparabile berretto calcato
in testa, dal temperamento mite e il passo incerto, nel
lungometraggio interpreta Alberto, uno dei pazienti dell'ospedale
psichiatrico. Il monologo finale e' una delle tante poesie
scritte negli anni della sua degenza, che tanto hanno influenzato
la pellicola del cantastorie romano.
"Il manicomio? -ricorda Paolini - Una follia. Sono entrato il 20
marzo del 1948, appena quindicenne. Ero solo un orfano".
Un'esperienza da subito shockante per Alberto, come lo erano le
terapie all'epoca utilizzate per curare il disagio mentale nelle
istituzioni totali, che hanno scritto una delle pagine piu' buie
ed aberranti della storia della psichiatria. "Il primo
elettroshock - rammenta - l'ho subito a 16 anni. L'aveva
inventato da poco Ugo Cerletti. Si perde conoscenza, a volte si
entra in coma, una condizione penosa. Temevo volessero cambiare
la mia mente, la mia personalita'". Poi la camera di contenzione,
i trattamenti con la Clorpromazina, gli psicofarmaci, il regime
di segregazione nei reparti, veri e propri gironi danteschi. "La
distribuzione non era per patologie ma per comportamento. Per
molti anni sono stato nel padiglione 12, riservato ai pericolosi.
Ci finiva chi cercava di scappare o aveva sospette tendenze
suicide. Poi c'era quello degli agitati, dei tranquilli, dei
sudici".
La legge Basaglia cambio' la sua vita. Nel 1990 lascio' il
frenocomio, chiuso definitivamente nove anni dopo, per andare a
vivere con altri pazienti, "a 5 minuti di autobus dal Santa Maria
della Pieta'", racconta, in una casa famiglia donata dallo
I.A.C.P. alla Asl locale. "Affrontare la realta' spaventa. E'
stato come atterrare su un pianeta sconosciuto a cui bisognava
adattarsi", ricorda Alberto. L'arrivo nel palazzo non fu facile.
Tante le riunioni fatte con i condomini prima del trasferimento.
"La societa' del tempo li considerava soggetti pericolosi",
spiega Adriano Pallotta, ex infermiere del nosocomio, che
all'epoca segui' la delicata fase di transizione e di inserimento
nei nuovi alloggi. Oggi la locazione dell'appartamento e' stata
affidata completamente ad Alberto ed ai suoi coinquilini; tutti
percepiscono una piccola pensione d'invalidita' civile ed un
sussidio erogato dall'azienda sanitaria. Sono autosufficienti,
anche se supportati dal Dipartimento di salute mentale di zona.
"Pure qui non siamo liberi, ancora siamo controllati", precisa
l'anziano. "Un tipo come Paolini, con capacita' enormi - spiega
Pallotta che oggi presta servizio come volontario -vorrebbe
sentirsi indipendente, ma il sostegno aiuta nelle difficolta'".
Alberto continua a scrivere sull'orrore di quegli anni. Nel 1993
ha curato un capitolo sull'elettroshock proprio sul libro di
Adriano Pallotta "Scena da un manicomio" (Edizioni Scientifiche
Magi -1998). Insieme viaggiano nelle scuole di tutta Italia per
raccontare il dramma vissuto nell'istituto psichiatrico. Nel 2004
l'incontro con Ascanio Celestini. Il resto e' storia.
"Collaborare con lui - assicura il regista - e' stato
fondamentale. M'interessava narrare una vicenda che generalmente
rischia di restare una questione privata o un problema
scientifico". "Stare sul set - replica Alberto - e' stato
emozionante. E che ne sapevo di come si faceva un film! Al Santa
Maria della Pieta' ci torno quando ho tempo. Ogni angolo mi
ricorda una parte importante della mia vita, impossibile da
dimenticare, che nonostante tutto continuo a portarmi dentro".
(Wel/ Dire)