Il Progetto Vela, voluto nel 2015 da operatori del Sert a Milano
Roma, 23 apr. - D. ha inventato una favola per raccontare di se' al suo bimbo. "Il racconto e' ambientato in un bosco buio e tenebroso - scrive l'uomo -: camminando in un sentiero mi sono perso". I protagonisti che abitano la foresta d'invenzione sono "il tasso che rappresenta il giudice, le lucciole il conforto delle relazioni con le persone", mentre i "Bluganti", esseri partoriti dalla sua fantasia dietro le sbarre, "sono gli operatori di Polizia Penitenziaria". D. spera che con questa fiaba Gabriele - suo figlio, tre anni - "possa capire cosa sto vivendo". "Sono felice di averglielo detto - si chiude lo scritto -. Mi sono sentito meglio io e sopratutto ho visto Gabriele piu' tranquillo". C'e' invece chi ancora non ha trovato il coraggio di mettersi a nudo: "Caro A., tu mi chiedi sempre 'papi quando vieni a casa?' Io rispondo 'quando finisco di lavorare faremo tante belle cose insieme'. Ora non sono pronto ma prima o poi diro' tutta la verita'". Un altro bambino, caso identico, giustamente si domanda: "Ma se la mamma inizia a lavorare poi non torna a casa come te?".
Sono brani tratti da una rappresentazione al teatro della casa di reclusione di Opera, realizzata da operatori e detenuti uniti nel "Progetto Vela": calcato sul piu' noto modello de "La Nave" di San Vittore, attivo sin dal 2002, la "Vela" prevede che 50 reclusi con problemi di dipendenza da sostanze e alcool abbiano la possibilita' di curarsi aderendo volontariamente a gruppi con programmi terapeutici, sanitari, psicologici, socio-educativi, culturali e ricreativi. Il gruppo "Genitori e figli" e' uno di questi. Si mettono i pensieri su carta, si elabora il proprio passato: "La mia prima moglie e' morta di parto dando alla luce C., il mio secondo figlio - racconta un uomo albanese -: Mi sono chiuso in me stesso sempre di piu', ho usato cocaina per sopravvivere, ho commesso un reato e sono arrivato qui a Opera". "Ti ho abbandonato con i nonni in Grecia - dice un altro -. So di essere in debito con te. In questo momento difficile delle scuole vorrei essere li'".
Il progetto Vela prevede un'altra dozzina di gruppi tematici. Tra le attivita' piu' peculiari quella del videobox: 10 minuti in solitudine davanti a telecamera e monitor per videoregistrare un auto-intervista. Un girato dove il detenuto e' regista, protagonista e comparsa allo stesso tempo. Dopo una settimana la si rivede in compagnia di un operatore a propria scelta. E' convincimento di psicoterapeuti e assistenti sociali che in quel contesto - "una palestra dove allenare le emozioni" la definiscono - non ci si possa mentire. Un altro gruppo si muove sui binari dell'educazione sanitaria, sulle malattie sessualmente trasmissibili, sul concetto di salute secondo le definizioni dell'Organizzazione mondiale della sanita', sulle droghe in circolazione. Perche' "e' accertato - scrivono nella presentazione del progetto i tre educatori e l'assistente sociale del Sert, capitanati dal dottor Giuseppe Mate - che nella popolazione tossicodipendente in detenzione si trovano storie in cui il ricorso al consumo di alcool e droghe e' piu' gravoso, caratterizzato da poli-assunzione, carico di problematiche mediche, infettive e psichiatriche". Tema cruciale nel carcere di Opera, in cui e' aperta una sezione di 14 posti letto (di cui quattro per l'isolamento sanitario) per i detenuti con malattie infettive. "Un hub nazionale per l'Aids", come lo definisce Roberto Ranieri, responsabile di medicina penitenziaria di Regione Lombardia e vice presidente della Societa' italiana di medicina e sanita' penitenziaria (Simspe). A Opera arrivano detenuti malati da tutta Italia.
"Un solo obiettivo mi importava - racconta M, un uomo colto a giudicare dal lessico dei suoi scritti, nella riflessione che il detenuto dedica al rapporto fra droga e salute -: La festa. E mi dicevo: Che festa sia". Parla del suo sistema nervoso attivato dalle droghe che "mi faceva stare in un bagno di dopamina, tutt'ora mi vengono i ricordi positivi di quella situazione". Conseguenze dannose? "Non avevo piu' la percezione del tempo e altre cose si erano alterate, per esempio il valore dei soldi.
Potremmo dire distacco dalla realta'? Stavo immerso in stati d'animo quasi alternativi. Mentre sognavo grandi cose, obiettivi ambiziosi, carico di euforia e mi buttavo su tutto cio' che mi pareva brillante, preparavo allo stesso tempo le premesse per andare incontro ai guai. Viaggiavo con il mio hashtag '#menestrafotto' e potete immaginare dove mi ha portato".
Non si commisera M. e il suo cervello, cosi' reattivo, e' gia' alla ricerca di soluzioni future: "Voglio credere a un dato scientifico che abbiamo studiato nelle ultime settimane, che ci suggerisce di lavorare su un obiettivo senza mollare per un buon lasso di tempo, in modo da addestrare il nostro cervello a produrre dopamina in modo nuovo e, sopratutto, senza la chimica delle droghe". "Mi chiedo - chiude il detenuto -: e' possibile produrre la mia dopamina in tutt'altro modo? Stando bene fisicamente, propormi degli obiettivi lavorativi, oppure, per stare in un filone classico, provando delle emozioni d'amore, stringere amicizie positive, vivere piu' pienamente possibile l'affetto della famiglia. Vedremo!".
(Wel/ Dire)