(DIRE - Notiziario settimanale Psicologia) Roma, 6 dic. - La tendenza generale e' credere che, per un bambino dichiarato "adottabile" dal tribunale, l'approdo a una nuova famiglia rappresenti il giro di boa verso una vita piu' serena. Ma non si tratta sempre di un percorso semplice. Stando a una rilevazione del Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza (dati ultimi si riferiscono al 2010), in Italia ci sarebbero circa 1.900 minori che, pur condividendo lo status giuridico della cosiddetta "adottabilita'", continuano a vivere sballottati tra famiglie affidatarie e comunita' educative, senza riuscire a trovare la strada per l'adozione.
Una recente ricerca svolta sul territorio torinese ha sottolineato come i bambini in affidamento temporaneo farebbero molta piu' fatica dei loro coetanei a trovare una stabilita' scolastica, oltre che affettiva. A commissionare lo studio al locale dipartimento universitario di Scienze dell'educazione e' stata Casaffido, ente che nel capoluogo si occupa della materia su mandato dei servizi sociali: condotta su un campione di cento soggetti in affidamento familiare e d'eta' compresa tra i 3 e i 17 anni, l'indagine restituisce un quadro per nulla confortante. Se l'ingresso a scuola ormai non sembra piu' rappresentare un grosso problema (le difficolta' segnalate, nella fattispecie, riguardano iscrizioni tardive e frequenti cambi d'istituto), i dati evidenziano invece come un 61 per cento del campione presenti rilevanti difficolta' di apprendimento.
"Si tratta essenzialmente di tre ordini di problemi" spiega Paola Ricchiardi, professore associato dell'Universita' di Torino che, oltre ad aver condotto l'indagine, e' madre affidataria di una "famiglia-comunita'", un nucleo con piu' di tre minori in affido (quattro, nel suo caso). "Ovvero di difficolta' cognitive, di autoregolazione e di motivazione". Per quanto riguarda le prime, dallo studio emerge come almeno il 24 per cento del campione presenti forme di disagio mentale, che nella meta' dei casi tendono ad emergere gia' nella scuola dell'infanzia. Una media enorme se raffrontata con quella nazionale, che si attesta attorno al 4 per cento dei coetanei; e alla quale va poi sommato un altro 8 per cento di ragazzi che nel campione di indagine ha mostrato un Disturbo specifico dell'apprendimento, oltre a un 29 che appartiene alla fascia grigia delle difficolta' aspecifiche: "ovvero- continua Ricchiardi- di quei problemi che si collocano sulla linea di confine che separa la cosiddetta normalita' dalle fattispecie cliniche". Tra questi ultimi 29 ragazzi (il campione, lo ricordiamo, e' di 100 soggetti), ben 21 non sono neppure segnalati come alunni con "Bisogni educativi speciali" (cosiddetti Bes), mentre i restanti 8, pur rientrando nella categoria, non hanno alcuna certificazione relativa a disabilita' o a disturbi dell'apprendimento. Ne consegue, secondo Ricchiardi, "che per questi allievi le scuole tendono a non dotarsi di strategie educative ad hoc". "Il risultato- sottolinea la ricercatrice- e' che spesso si finisce per colpevolizzare unicamente la famiglia; che di riflesso tendera' a diventare piu' severa e restrittiva, innescando cosi' un circolo vizioso, dal momento che questi bambini avrebbero bisogno di un supporto mirato piu' che di misure disciplinari".
Da cio' discenderebbe un altro grande spartiacque che divide i bimbi in affido dai loro coetanei: le bocciature. "Nella scuola primaria- illustra Ricchiardi- ormai non si boccia quasi piu': la media nazionale non arriva nemmeno al 2 per cento, mentre dei cento ragazzi che abbiamo esaminato, ben 32 hanno dovuto ripetere almeno un anno alle elementari". E non va molto meglio alle secondarie e alle superiori, dove le media riscontrata si attesta, rispettivamente, al 24 e 31 per cento, contro un dato nazionale del 7 e del 22. Risultati, questi, che secondo la ricercatrice evidenziano come le difficolta' "vadano crescendo di pari passo col percorso scolastico", segno di come le scuole di ogni ordine e grado sembrino al momento in difficolta' nell'aiutare questi ragazzi.
"In molti casi- spiega Ricchiardi- gli istituti sono gia' dotati di equipe complesse che seguono l'inserimento dei minori in affido, alle quali partecipano sia le asl che i servizi sociali. Ma la componente psicologica continua ad essere troppo poco integrata con il resto della catena educativa". La ricerca, infatti, evidenzia come i maggiori problemi incontrati da questi ragazzi rientrino soprattutto nei campi della motivazione e dell'autoregolazione: secondo la docente, i bambini in affido mostrano difficolta' a stare seduti nel banco e a concentrarsi, sperimentando inoltre- per quanto riguarda la motivazione- un disagio emotivo e affettivo "che dagli insegnanti viene pero' percepito come semplice apatia o svogliatezza". Proprio qui starebbe il grosso della questione, "perche' quasi sempre- continua Ricchiardi- simili problemi hanno un'origine psico-affettiva". In altre parole, a provocarli e' il senso di precarieta' esistenziale "dovuto alle numerose transizioni da una famiglia affidataria all'altra, che implicano anche cambi di scuola e amici". Oltre al fatto che, molto spesso, le carenze cognitive "sono direttamente collegabili all'assenza di un adulto di riferimento, presente e capace di stimolare adeguatamente il bambino".
Una mancanza di punti fermi che quasi sempre, purtroppo, tende a replicarsi anche all'interno del sistema scolastico: "in Italia- continua la ricercatrice- i ragazzi devono avere una grave patologia per vedersi riconosciuto il diritto a un insegnante d'appoggio. Ma i disturbi relazionali, dell'affettivita' e dell'attenzione non andrebbero presi sottogamba; perche' e' dimostrato che, con un buon lavoro educativo, i loro effetti potrebbero essere mitigati moltissimo, quando non proprio invertiti. La tendenza che riscontriamo piu' spesso nei docenti, invece, e' quella di liquidare il tutto come un normale problema di disciplina: problema che viene risolto con note, richiami o sospensioni da scuola. Ma nel momento in cui questa difficolta' e' dovuta al fatto che il bambino ha una parte ferita o traumatizzata, questo genere di approccio finisce spesso per peggioratela situazione: il disagio non viene capito, la famiglia affidataria diviene a sua volta piu' repressiva e gli atteggiamenti che si vorrebbe correggere finiscono invece per cronicizzarsi".
Per questo, dall'analisi dei dati e' emersa la necessita' di formulare linee di indirizzo chiare anche per quanto riguarda l'inserimento scolastico dei minori in affido, come gia' fatti per quelli in adozione. A presentare una proposta sul tema, lo scorso 22 ottobre, e' stata l'Associazione nazionale famiglie adottive o affidatarie (Anfaa), durante un convegno organizzato per illustrare i risultati dell'indagine, cui hanno preso parte anche rappresentanti delle istituzioni scolastiche e dell'amministrazione regionale e comunale. "La mancanza di linee guida specifiche- sottolinea Paola Ricchiardi- oggi fa si' che il buon inserimento di questi bambini sia una mera questione di fortuna, in quanto dipende dalla sensibilita' degli insegnanti e del personale educativo, ovvero da fattori puramente individuali" Ma non e' tutto: secondo la Ricchiardi, e sul punto concordano anche Anffa e Casaffido, la sensibilizzazione deve riguardare anche i genitori e l'intero microcosmo scolastico: "un bambino con difficolta'- chiosa Ricchiardi- e' potenzialmente in grado di mettere in crisi l'intera classe. La nostra concreta esperienza, pero', ci dice che la situazione puo' essere gestita meglio quando cio' viene fatto da un gruppo di genitori solidali e consapevoli. Mentre tende invariabilmente ad aggravarsi, sfociando spesso in un circolo vizioso, quando i bambini vengono isolati e stigmatizzati".
(Wel/ Dire)