Sarchielli (universita' Bologna): 1° Maggio rimane 'festa ribelle'
(DIRE-Notiziario settimanale Psicologia) Roma, 26 apr. - "In realta' parlare di 'liberta' di scelta' del lavoro e' improprio. Anche nel passato questa idea era abbastanza erronea o meglio era applicabile (e forse e' cosi' anche oggi) solo alle classi piu' agiate che potevano permettersi un'elevata scolarizzazione dei figli e notevoli sostegni familiari". Risponde cosi' Guido Sarchielli, professore di Psicologia del Lavoro dell'Universita' di Bologna, intervistato dalla DIRE sulle reali possibilita' di scegliere liberamente il lavoro oggi e sulle ripercussioni che una mancata liberta' potrebbe invece avere sul benessere psichico.
"Oggi in generale e' meglio parlare non di scelta del lavoro, ma di 'percorsi lavorativi'. Essi sono fatti di piu' scelte nel corso del tempo- continua il professore- con molti cambiamenti, periodi di lavoro e di non lavoro, intrecci tra studio, lavoro e poi ancora formazione, e cosi' via. In altre parole, le carriere non sono piu' lineari, quasi automatiche ne' garantite dal titolo di studio. La ricerca psicologica ha mostrato come le carriere siano oggi quasi sempre segmentate, siano il frutto di combinazioni di esperienze diverse, positive e negative, che la persona dovrebbe cercare di controllare".
Il rischio di insuccesso e' "attualmente molto forte e la paura di non farcela spesso diventa fonte di ansia, di perdita di speranza, di pessimismo e talora di vera e propria depressione. In questo senso l'incontro con il lavoro odierno, spesso instabile e precario, diventa frustrante, genera malessere sia nella forma di risentimento e aggressivita', sia nella forma di apatia e isolamento sociale, anche perche' e' difficile trovare un senso negli spezzoni di lavoro che vengono offerti", chiosa lo psicologo del lavoro.
Questo non vuol dire che non ci siano piu' carriere soddisfacenti o di successo. "Esse pero' richiedono piu' impegno personale rispetto al passato, volonta', disponibilita' al cambiamento, creativita' e capacita' di adattamento e investimenti nella formazione. Le nuove carriere sono piu' difficili da intraprendere- sottolinea il docente- se non sono preparate per tempo, se non c'e' un progetto personale realistico e se non sono sostenute dagli adulti. In questa direzione dovrebbero operare i servizi di orientamento e per il lavoro aiutando cosi' anche la famiglia che sin qui ha potuto operare come ammortizzatore delle difficolta' sociali".
- Qual e' oggi il senso e il valore della festa del '1° Maggio'? "Se non ricordo male- risponde Sarchielli- la festa del primo Maggio nacque verso la fine dell'800 in un periodo di lotte anche sanguinose per la riduzione della giornata lavorativa e per altri diritti fondamentali per i lavoratori. Dopo oltre un secolo fortunatamente sono cambiate la sostanza e la forma del lavoro e- aggiunge- almeno nei paesi Occidentali, non ci si trova piu' di fronte alle vessazioni, ai livelli di sfruttamento e ai rischi per la salute del capitalismo industriale ottocentesco".
Tuttavia, "vale la pena insistere con il ricordo del 1° Maggio come 'festa ribelle' almeno per due ragioni: la prima e' confermata dall'ILO (International Labour Organization), quando sostiene che la lotta per un 'Lavoro decente' e' ancora indispensabile soprattutto, ma non solo, in numerosi paesi del mondo in via di sviluppo (si pensi alla grave mancanza di diritti lavorativi, all'assenza di protezioni sociali, al diffuso lavoro minorile, allo sfruttamento del lavoro delle donne, ecc.). La seconda- prosegue il professore di Psicologia del Lavoro- concerne la stessa Europa. Qui, oltre alla grave crisi occupazionale, che mette a repentaglio la vita presente e futura dei giovani (si parla di lost generation) si assiste a un rilancio della cosiddetta 'intensificazione del lavoro', ovvero alla crescita dei tempi lavorativi solo in parte contrastata da una direttiva europea sui tempi di lavoro (che e' costretta a fissare un massimo settimanale addirittura di 48 ore). Un segnale questo- precisa lo psicologo- che certo non va incontro alle esigenze di una migliore qualita' della vita lavorativa e di un bilanciamento tra tempi di lavoro e tempi della vita personale".
- Cosa pensa dello smart working? Quali possono essere le conseguenze di questo modello lavorativo a livello psicologico? "Ho un orientamento molto positivo verso lo smart working. Esso rappresenta una forma di 'flessibilita' buona' che potenzialmente produce benefici per il lavoratore e per l'azienda. Dalle prime esperienze italiane (ad esempio la Barilla e, di recente, la GM di Torino)- continua il professore- emergono segnali positivi per il lavoratore in quanto egli organizza in modo migliore il suo tempo, si sente piu' autonomo, riesce a bilanciare meglio impegni familiari e lavorativi, evita le interruzioni tipiche del lavoro d'ufficio, riduce tempi e fatica del pendolarismo e alla fine sembra piu' soddisfatto. Anche l'azienda ha i suoi vantaggi sul piano dell'efficienza, della riduzione dei costi per gli uffici e come forma di premio e incentivazione per i lavoratori".
- Dunque tutto bene? "Come sempre, affinche' ci sia una vera innovazione occorre che sia presente un buon clima psicosociale caratterizzato dalla fiducia organizzativa e da un'effettiva condivisone degli scopi di questa nuova forma di organizzazione del lavoro!", ricorda il professore dell'Universita' di Bologna. "Parlerei di un nuovo 'contratto psicologico' tra lavoratore e azienda che chiarisca bene cosa ci si aspetta reciprocamente da un lavoro ora basato sui risultati e non sulle prescrizioni formali e sui tempi prefissati. Occorre poi definire con chiarezza quali tipi di lavoro si prestano ad essere trasformati in smart jobs. Altrimenti, il rischio per il lavoratore diventa quello di lavorare 'oltre i tempi ragionevoli'- chiosa Sarchielli-, cioe' di superare i confini tra lavoro e non lavoro per non sentirsi messo in disparte e poco apprezzato dai superiori e dai colleghi. Se cosi' fosse, e' evidente la possibilita' di cadere in quella sindrome da lavoro eccessivo che gli psicologi hanno chiamato workaholism (dipendenza dal lavoro). Inoltre, se le cose non sono ben progettate in anticipo e di comune accordo- conclude-, e' probabile che lo smart-worker si trovi progressivamente isolato, con relazioni solo virtuali con il proprio team e dunque con eccessive perdite sia di sostegno sociale sia di informazioni e scambi informali. Tutti fattori che rappresentano di solito il 'sale' della vita lavorativa, poiche' si traducono in identita' sociale e senso di appartenenza alla stessa organizzazione".
(Wel/ Dire)