(DIRE-Notiziario Psicologia) Roma, 29 set. - "Il sintomo può essere l'espressione contingente di uno stato di malessere che in realtà merita un'interpretazione; il segno è invece una caratteristica specifica di un dato disturbo che ha significato perché ricorre e si ripete in modo sovrapponibile e preciso in condizioni differenti e in soggetti diversi". È chiara per Emanuele Trapolino, neuropsichiatra infantile e direttore dell'Unità operativa semplice di Neurologia neonatale dell'Ospedale pediatrico Giovanni di Cristina di Palermo, la differenza tra segni e sintomi nell'osservazione di un bambino.
Per facilitare la comprensione il medico, intervistato dalla DIRE, cita un esempio: "Il segno specifico della varicella è un eritema maculopapuloso, ma l'eritema può essere anche l'espressione di un'allergia o può essere su base vasomotoria. In sostanza può rappresentare un sintomo aspecifico. La specificità diventa quindi segno- ripete Trapolino- mentre l'aspecificità diventa sintomo. E poiché il sintomo è espressione di un fenomeno fortemente interpretativo che ci permette di giungere spesso alla vera causa di un disturbo, la lettura diagnostica del disagio di un bambino diventa un fatto molto interessante in quanto rimanda a com'è il bambino, al contesto in cui vive, al disagio che sta provando e così via".
Il direttore si rifà alle psicosomatosi e cita un ulteriore esempio: "La cefalea può non essere segno di una sofferenza organica, ma espressione di una 'scelta d'organo' - vedi la testa - attraverso cui si esprime un disagio emotivo che trova funzione nel rapporto scorretto che il soggetto ha con il contesto".
- Perché oggi è importante leggere bene i segni e i sintomi? "Perché è determinante stabilire il significato oltre che la natura del quadro morboso che interessa il bambino", risponde Trapolino. "Nei disturbi evolutivi non possiamo fermarci alla semplice categorizzazione, ad analisi fattoriale dei sintomi, ma dobbiamo cercare di capire cosa sottende il sintomo, quale la vera causa e natura del fenomeno sintomatologico per comprendere l'esigenza del bambino e la sua specificità sia biologica che psicologica." - In questo contesto qual è il ruolo del pediatra? "Il pediatra deve creare una situazione interattiva e assolutamente relazionale all'interno della quale c'è uno scambio: deve cogliere lo stato di disagio del bambino e della famiglia da un lato e dell'operatore dall'altro, per giungere a una comprensione del disagio senza dover tradurre subito il racconto in patologia, in quadro morboso".
- Quali sono i pericoli di una cattiva lettura di segni e sintomi? "Mi sono trovato spesso davanti a diagnosi frettolose- continua il medico- che in realtà non sono scorrette se analizziamo in modo assolutamente categoriale i sintomi.
Diventano improprie se tralasciamo la vera natura del disturbo e la cura di chi di fatto ha il disturbo: il bambino".
- Segni e sintomi in che relazione sono tra di loro? "Spesso ai sintomi possiamo dare una definizione molto specifica, potremmo individualizzarli tenendo conto della storia pregressa e attuale del bambino. Ogni aspetto che il bambino ci invia merita un'analisi specifica e una considerazione d'insieme- conclude- che deve essere il frutto di una concertazione che non riguardi solo il piccolo e la sua patologia, ma il bambino, la famiglia, l'ambiente e la sua patologia. Il problema è quanto mi avvicino al bambino nella comprensione della sua unità psico-fisica".
Trapolino tratterà il tema 'Vulnerabilità, latenze e traiettorie di sviluppo' al XVI Congresso nazionale promosso dalla Scuola di specializzazione in Psicoterapia psicodinamica dell'età evolutiva dell'Istituto di Ortofonologia (IdO) su 'Il processo diagnostico nell'infanzia. Cosa e come valutare clinicamente sintomi e comportamenti del bambino', a Roma dal 16 al 18 ottobre (
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(Wel/ Dire)