Bustreo (IULM): Sganciato da fatica perde di autenticità
(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 21 lug. - Il concetto di valore ha un duplice significato: qualcosa che ha un valore in sé e qualcosa a cui viene riconosciuto un valore. È possibile assimilare il lavoro a qualcosa che ha valore e che al tempo stesso si attribuisce valore? "L'indeterminatezza del futuro indirizza già la risposta. I giovani, a causa del sistema scolastico e del sistema socio economico, spostano in avanti non solo il momento della responsabilizzazione ma anche quello in cui dovranno riconoscere al lavoro un valore in sé". Afferma Massimo Bustrero, umanista, psicologo del lavoro, ricercatore della Libera università di lingue e comunicazione (IULM) e direttore didattico di due master in 'Management sanitario' e 'Case management'.
Il 4 settembre sarà in libreria il suo ultimo libro 'Tesi di laurea step by step' (HOEPLI Editore). Bustreo lavora da anni nel mondo professionale ed accademico della formazione universitaria, ma anche nella zona di ponte tra le due, i cui protagonisti sono i giovani adulti che lasciano il mondo dello studio per entrare in quello del lavoro.
"Paul Valéry diceva 'Non c'è più il futuro di una volta', e potremmo ripeterlo oggi più che mai. Il connubio lavoro-fatica non esiste più- precisa lo psicologo- e mancano valori forti a cui agganciare dei significati da attribuire al lavoro, che oggi sta perdendo di valore. La tendenza è infatti cercare di trovare un lavoro che non comporti fatica, ma che permetta di monetizzare nel minor tempo possibile".
- Cos'è il lavoro? "È la capacità dell'uomo di agire sulla natura per renderla abitabile. Il lavoro ha tre dimensioni: la relazione con il mondo interiore, la relazione con il mondo degli oggetti creati dalla 'fatica' (il prodotto del lavoro), e una sana relazione con il mondo di altri soggetti (gli interlocutori). Una relazione soddisfacente con il lavoro- precisa lo psicologo- riguarda allora la dimensione di autenticità che oggi si perde, sacrificando l'aspetto della fatica quotidiana; la dimensione di efficacia (produrre un prodotto); e, infine, la dimensione interlocutoria. Oggi nel lavoro si cerca soprattutto uno strumento che consenta un immediato consumo del prodotto che il lavoro produce: il nuovo cellulare, la camicia firmata, le vacanze, e non è difficile che si entri in un circolo vizioso per la costruzione identitaria". - Qual è il valore che attribuiamo alla dimensione psicologica soggettiva del lavoro? "Il contesto socio-culturale influenza il valore che la società attribuisce al lavoro. Ad esempio- spiega il ricercatore- per la cultura protestante solo attraverso il lavoro è possibile elevarsi e autogratificarsi. In un mercato globale e interconnesso si coniugano una promiscuità di codici culturali e diventa necessario risalire ai bisogni soggettivi per attribuire valore al lavoro. Viviamo in una post modernità finalizzata all'esibizione di sé, che dimentica la vera fatica. Si pensi che- continua Bustreo- in questo mercato del lavoro recessivo dal punto di vista culturale, socioeconomico e politico, solo lo 0,0005% delle start up può arrivare a profitto. Che valore do allora al mio lavoro se mi inserisco in quest'ottica? C'è piuttosto una posizione schizofrenica- afferma Bustreo- perché o si sceglie di espatriare o si finisce per dirsi che è tutta fatica sprecata".
- Quanto il lavoro definisce la nostra identità? "La completezza psicologica si raggiunge attraverso le cose che si agiscono. La componente del lavoro fornisce quindi la parte identitaria del nostro lavoro. Nel libro 'Self marketing per le professioni. Un percorso formativo per i talenti dell'alta formazione' (Franco Angeli) abbiamo tentato di misurare e comprendere le soft skills (competenze trasversali) dei dottorandi di ricerca, rispetto alle componenti emotive che i grandi cacciatori di teste cercano aldilà di quello che si è sulla carta. È emerso che, mediamente, nessuno era consapevole delle proprie competenze. Manca la capacità di lettura. Questo perché le competenze trasversali sono sottostimate rispetto a quelle tecniche. Oggi- ricorda lo studioso- c'è una difficoltà a chiedersi 'cosa voglio fare nella vita?', non si arriva risolti nel mercato del lavoro".
- Il contesto socio culturale e politico favorisce questa apatia? "Sì- risponde Bustreo- i giovani vivono come un peso il timore del fallimento, perché in Italia se fallisci sei un fallito. L'opposto che succede in Usa. Il fallimento è visto come un dramma, questo spiega perché così poche start up vadano avanti. Si tratta di un problema culturale".
- Come dare di nuovo valore al lavoro? Qual è il suo consiglio? "È necessario avvicinarsi al lavoro in modo umile, come a un luogo in cui trovare la mia autenticità, la mia socialità con gli altri e la mia efficacia. Il miglioramento di un artefatto è frutto di un percorso consapevole, modesto e originale. Con il mio lavoro- conclude- posso modificare il contesto in modo evolutivo e progressivo".
(Wel/ Dire)