Articolo di Raffaella Zani sul sito dell'Ordine psicologi Lazio
(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 23 giu. - Monica ha 30 anni, convive col suo compagno, ha una laurea e un master, lavora come guida turistica, si è guadagnata con sacrifici e fatica il suo spazio nel mercato del lavoro. Ama viaggiare, passare il tempo libero con il fidanzato, uscire con le amiche, studiare, mantenersi in forma e tanto altro.
Monica aspetta un bambino, un figlio che, seppure desiderato, man mano che cresce dentro di lei fa crescere anche paure e interrogativi. "La mia vita cambierà? Ora che sapranno che sono incinta non mi chiameranno più per lavorare? Questo bambino mi impedirà di viaggiare? Mi separerà dal mio compagno?". Le donne che oggi vogliono diventare madri si trovano di fronte a due esperienze che vivono come contrapposte e che danno quindi origine a un conflitto: abbracciare la maternità e fermarsi per dedicarsi a questa esperienza, alla famiglia, oppure fare di tutto per mantenere la loro vita di sempre, quella che le vede impegnate nel lavoro, nella cura di sé e nella vita sociale? Sempre più spesso sembra che le donne si trovino di fronte ad un bivio, con il desiderio di non scartare nessuna delle due strade e con l'imperativo di riuscire a farlo.
Diventare madri implica certamente una trasformazione, che non riguarda più però unicamente la vita interiore della donna e la sua vita di coppia, come è sempre stato, ma mi sembra che oggi questa trasformazione sia appesantita anche da un aspetto sociale, di identità di fronte al mondo degli amici, del lavoro, all'universo delle prospettive. Questa si sta configurando come la trasformazione che più spaventa le donne di oggi, perché sono cresciute con un nuovo mandato sociale, un mandato 'plurimo': ci si aspetta ormai infatti che le donne oggi studino, lavorino, siano indipendenti, restino in forma, siano capaci, 'multitasking' (come tanto amiamo dire agli uomini!), madri, amiche, eà. tante altre cose.
Jennifer Stuart, in un suo interessante articolo (2011) analizza le motivazioni alla base della scelta di procreare, tra cui sicuramente quella di vedere continuare la propria stirpe, o, in altri termini, di vedere la propria rinascita.
Intenzionalmente o meno, nella cura dei figli tante donne realizzano una trasformazione personale attraverso l'alchimia dell'identificazione. Per una donna la maternità può fornire una sorta di seconda possibilità di sviluppo - un'opportunità per neutralizzare le delusioni precoci o come un prolungamento del proprio essere nel mondo. Tuttavia, se la voglia di procreare è universale, anche i sentimenti di ambivalenza sulla maternità e verso i propri figli lo sono.
Sempre più spesso ascolto parole come queste: "Non voglio diventare una di quelle donne che parla solo della sua gravidanza, che su Facebook mette solo post sul suo bambino, che alla fine molla il lavoro per fare la mamma a tempo pieno, si lascia andare fisicamente e non cura più le amicizie".
Quello che mi chiedo è: quanto è difficile per una donna oggi diventare madre? Quanto spazio esiste nella sua vita e dentro di lei per abbracciare non solo il ruolo di madre, ma soprattutto un modo di essere e di stare in relazione con suo figlio? In questo il mercato del lavoro non aiuta e molto spesso le aziende tendono per esempio a non assumere donne sposate e per questo a "rischio" gravidanza, a causa dell'enorme costo finanziario della maternità, nella perdita di reddito potenziale. Le risorse personali dedicate alla cura dei bambini - non solo i guadagni potenziali, ma anche tempo ed energia - vengono deviate dalle altre possibili attività.
Quando anche le donne riescono a portare avanti tutte le loro attività, quello che ne emerge è una vita frenetica, fatta di organizzazione, di sfide, di sacrificio, che le portano spesso a non sentirsi mai veramente soddisfatte di come in quella giornata sono state madri, mogli, lavoratrici, casalinghe. La sensazione è sempre quella di aver lasciato qualcosa indietro, di non essere stata 'abbastanza brava' in qualche attività. Questi ritmi non aiutano nel difficile compito della sintonizzazione col proprio figlio, con i propri vissuti emotivi - strumento insostituibile per comprendere noi stesse e gli altri, primo fra tutti nostro figlio - e senza una guida per capire dove si sta andando.
Penso che non ci sia una soluzione magica per risolvere una questione così complessa, per donare l'onnipotenza, per essere tutto e non perdere niente, piuttosto credo che la costruzione di uno spazio per un figlio avvenga con il difficile lavoro che ciascuna fa con se stessa sull'accettazione dei limiti, i limiti personali e i limiti dell'ambiente esterno. Solo attraverso il doloroso lavorio depressivo derivante dalla sospensione, dalla tolleranza di quello che sembra un vuoto, dalla inevitabile costrizione ad una scelta la donna può giungere a quella posizione passiva che richiama l'immagine di un contenitore, che si svuota per fare spazio a qualcosa, ma che in questo incavo può dare vita a qualcosa di nuovo, qualcosa che rappresenta non solo una nuova vita (un bambino) ma anche una nuova parte di noi stesse. Quali cose sentite di poter perdere se restate incinta? Quali paure si affacciano dentro di voi all'idea di diventare madri? A quale parte di voi stesse temete di dover rinunciare con l'arrivo di un figlio? (Wel/ Dire)