Etain Addey, autrice de 'La vita della giumenta bianca'
(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 10 feb. - "Mi sento parte di un movimento iniziato nel mondo anglosassone negli anni '60-'70 e arrivato in Italia solo negli anni '80: il ritorno alla terra". Parte da qui Etain Addey, autrice del libro 'La vita della giumenta bianca. Il mondo incantato e il paradosso della sobrietà', edito Magi Edizioni, per spiegare le ragioni che l'hanno spinta a scrivere.
"Si torna alla terra per non avere più la necessità di guadagnare i soldi con dei lavori che mancano di etica, quando non si può più far finta di niente- prosegue la scrittrice- perché quello che fai nelle ore di lavoro appartiene a te. Nel libro non parlo solo della mia esperienza, ma di quella di tante persone che scelgono 'la decrescita felice': uno stile di vita che ti occupa molto tempo, fatto di lavori lenti". È un modo di vivere che riparte da zero: "Si cucina col fuoco e se si vuole l'acqua bisogna andarla a prendere alla fonte. Per me è una vita interessante e divertente. A Roma mi sentivo collaboratrice di una situazione che non mi piaceva. Ho voluto quindi lasciare il mondo del consumismo, dove si lavora per società che dettano la moralità o la mancanza di moralità". A Gubbio, spiega l'esperta di bioregionalismo, "ho trovato quel tempo silenzioso che mi aiuta a vedere la profondità delle cose".
Nel suo ultimo libro descrive la morte di una cavalla, cosa significa? "Alla vigilia del matrimonio di mia figlia muore la nostra cavalla. Un evento tragico- spiega la donna- che se fossi stata a Roma avrei vissuto in modo diverso. Non l'avrei collegato agli eventi della vita quotidiana con un linguaggio che viene dalla profondità dell'anima". Una morte che Addey interpreta come un miracolo: "Ci ha colto alle tre di mattina costringendo una famiglia geograficamente sparsa per l'Europa a riunirsi per lavorare insieme. Un'esperienza molto forte, un evento catartico che difficilmente si vive al di fuori da un contesto semplice".
Nel testo ricorre il tema del 'sacrifico', che vuol dire per lei oggi questa parola? "Ci si sacrifica quando si desidera qualcosa, è un do ut des. Quando mi sono trasferita da Roma a Gubbio ho sacrificato un certo modo di vivere, i soldi, il mio posto nella società. Ho rinunciato ad una vita che mi appariva vuota. Certo- ripete la scrittrice- qui non ho più un ruolo sociale stabile, sono una contadina e non nascondo che ha spesso costituito un problema per me. Ad esempio- ricorda- quando mia figlia è andata a scuola ho dovuto far comprendere all'insegnante che non siamo dei trogloditi. Ma questo trasferimento mi ha dato molto, anche se stavo in mezzo al fango e in una casa dove ci pioveva dentro, sento ancora di aver ricevuto più del dovuto". Etain Addey è quindi convinta che il sacrificio porta sempre qualcosa: "Giova alle persone. Non è dato sapere cosa si riceverà, ma il mondo ti viene incontro in modo generoso. Se lasci parti di te, se impari a metterti un po' da parte, il vuoto che si sperimenta viene colmato in qualche maniera. In Occidente il sacrificio esiste come idea religiosa, la sofferenza è vista come una cosa superata, antiquata e brutta, invece fa parte di un modo di agire degli essere umani. Un modo non cosciente ma intuitivo. Mia madre era quacchera e ricordo un detto: 'Vivere in modo avventuroso'. Vuol dire non ti adagiare. Prendi la strada più pericolosa perché è la più interessante".
Com'è vivere nei pressi di Gubbio? "Nella società di oggi c'è poca memoria, poco ascolto, non si fanno collegamenti. Questa è la grande differenza che ho trovato tra la vita romana e la vita di qui. A Gubbio posso avere il silenzio mentre faccio il formaggio o una passeggiata, posso avere il tempo di collegare. Mi riferisco a un linguaggio simbolico che è a me familiare, avendo avuto un padre un astrologo. Sono abituata a pensare simbolicamente e a vedere il mondo funzionare a più livelli". Il fatto di "venire ad abitare vicino a Gubbio, un posto dove la gente ha un fortissimo senso del luogo, è stato per noi un insegnamento importante. Questo modo di essere è la chiave del ritorno alla terra- racconta Addey- la terra di ogni luogo geografico parla un linguaggio diverso e se si vuole diventare nativi di quel luogo, serve un apprendistato con persone che sanno cosa si pianta qui, come si cucina, quale legna brucia meglio, cosa dicevano 'i nostri vecchi'. Abbiamo avuto la fortuna qui in campagna di avere anziani vicini di casa che avevano fatto una vita veramente autosufficiente ed è stato con il loro esempio e il loro aiuto concreto che abbiamo imparato a vivere qui. Nel libro, il capitolo su Rosa è quindi un omaggio".
Cos'è la 'decrescita felice'? "Sono stati molti i movimenti sociali importanti usciti dal '68: fra questi per esempio c'era la lotta armata, di cui si è parlato molto in Italia, e il ritorno alla terra, di cui si è parlato poco ma che silenziosamente va crescendo di anno in anno come risposta ai grossi problemi della società industrializzata. Il '68 ha quindi prodotto molte cose e non tutte evidenti. Il concetto di 'semplicità volontaria' o l'espressione 'decrescita felice' sono comunque parole importanti-conclude la scrittrice-indicano nuove idee, e anche il solo fatto di averle sviluppate ci ricorda che qualcosa di vero sta succedendo".
(Wel/ Dire)