Articolo di Laura Dominijanni, Ordine psicologi del Lazio
(DIRE - Notiziario Psicologia) Roma, 21 apr. - Sono sotto gli occhi di tutti i grandi mutamenti che la complessità sociale ha portato nella scuola: sono cambiati gli alunni e le problematiche presentate, ma anche le loro famiglie, l'organizzazione scolastica, etc. Se siete insegnanti o genitori, saprete bene che le classi di oggi sono spesso molto (troppo) numerose e ricche di tante "diversità" e "specialità" che richiederebbero attenzioni e didattiche personalizzate e inclusive. Non a caso, la recente normativa sui Bisogni Educativi Speciali (DM 27/12/2012) si muove proprio in questa direzione. Il che si traduce, però, in nuove sfide, specie per gli insegnanti In un simile contesto, infatti, i docenti (che dovrebbero personalizzare i piani educativi per gli alunni con Bes: Bisogni educativi speciali) si trovano sempre più spesso con la sensazione di avere pochi strumenti, "schiacciati" tra crescenti complessità burocratico-organizzative e quotidiane difficoltà di gestione delle "nuove" classi.
Accade così che le "situazioni difficili" vengano delegate all'insegnante di sostegno che "sta su" l'alunno con disabilità certificata e contemporaneamente "dà una mano" durante le lezioni ai compagni con Bes. Per capirci, l'immagine che mi viene in mente - e che molto probabilmente troverà riscontro nella vostra memoria o esperienza attuale - è questa: l'insegnante curriculare spiega o interroga muovendosi tra cattedra e lavagna, mentre quello di sostegno siede accanto all'alunno disabile (in alcuni momenti lo porta anche fuori dalla classe) o si aggira silenzioso tra i banchi per dare una mano a qualche altro alunno in difficoltà. Vi torna? Inoltre crescono i ricorsi al TAR per l'aumento delle ore di sostegno, prova che esso viene spesso inteso come unica mossa possibile per migliorare l'integrazione e diminuire il senso di fatica in classe.
Mi chiedo: È questa la via per l'integrazione? E' questa la migliore posizione che può assumere un insegnante di sostegno in termini di risorsa per la classe? La mia risposta è "no!" ad entrambe le domande. Credo fermamente che una vera integrazione dell'alunno disabile con la classe possa avvenire solo se, specularmente, ci sia una altrettanto vera integrazione dell'insegnante di sostegno con il resto del corpo docente (che è poi il concetto di isomorfismo). Mi spiego meglio: Pensiamoci bene, come potrebbe l'alunno con disabilità integrarsi con la classe se ciò che gli viene proposto come modello operativo dagli insegnanti stessi è una non-integrazione? E' vero, esiste la contitolarità della cattedra (insegnate di sostegno e curriculari hanno cioè uguali diritti e doveri nei confronti di tutti gli alunni della classe), ma nella realtà dei fatti - lo accennavo poc'anzi - l'insegnante di sostegno quando lavora in classe, sta per lo più in punta di piedi, si muove tentando di "controllare" l'alunno che segue o di dargli una mano per seguire la lezione, difficilmente lavora "con" quello curriculare e con l'intera classe. Quindi, raramente le lezioni sono co-condotte fornendo agli alunni un modello di quell'inclusione di cui tanto si parla ultimamente, e che dovrebbe costituire un obiettivo ulteriore rispetto all'integrazione: gli alunni devono avere le stesse possibilità di partecipazione, essere valorizzati nelle proprie abilità (tutte diverse tra loro) all'interno di processi di apprendimento e socializzazione di gruppo. A questo proposito nelle Linee-Guida per l'integrazione scolastica degli alunni con disabilità del 2009 si legge: "Si è integrati/inclusi in un contesto, infatti, quando si effettuano esperienze e si attivano apprendimenti insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e strategie di lavoro e non quando si vive, si lavora, si siede gli uni accanto agli altri".
Stessa cosa dovrebbe, a mio avviso, valere per l'insegnante di sostegno che: "Dovrebbe avere la stessa possibilità dei colleghi curriculari di partecipare alla programmazione e conduzione delle lezioni, ovviamente nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze, anche formative; potrebbe mettere la propria "specializzazione" al servizio del corpo docente proponendo e progettando attività di didattica cooperativa in classe e contribuire individuando le "specialità" e il ruolo da far giocare agli alunni con disabilità.
Un proverbio recita: "Da soli si va più veloci, insieme si va più lontano". Credo che proprio questo sia uno dei movimenti che la scuola italiana dovrebbe fare, ponendosi come laboratorio esperienziale per ciascuno e, contemporaneamente, modello per l'intera società. Una società, non a caso, estremamente individualista la nostra. Una didattica che continua a centralizzare il docente in rapporti uno a uno con l'alunno non fornisce un buon modello per lavorare in squadra, competenza sempre più richiesta in ambito lavorativo, in quanto strumento di crescita e successo individuale e collettivo allo stesso tempo. In questo la psicologia ha indubbiamente conoscenze e competenze da mettere in campo al servizio della scuola.
Non siamo abituati a comunicare guardandoci negli occhi (in quante classi la disposizione dei banchi lo permette? In quante si fanno attività in circle-time in modo regolare?), né ad ascoltare i feedback degli altri dando il nostro contributo. Su questo l'insegnate di sostegno "esperto" in integrazione e inclusione può dare un contributo prezioso, a partire dalla propria posizione: Non più stare "a fianco del" corpo docente curriculare, ma "stare con", muoversi insieme.
Credo che un intervento dello psicologo rivolto agli insegnanti possa essere di valido aiuto per "allenare" il corpo docente al lavoro di squadra, cioè a quel "muoversi insieme" che può far andare lontano (insegnanti e alunni). Sarei curiosa di conoscere il vostro parere e le vostre esperienze sulle situazioni qui esposte, vi aspetto nella zona commenti.
(Wel/ Dire)