(DIRE) Roma, 28 mag. - "Lo studio Improve-it ha dimostrato che scendere al di sotto del valore di Ldl (colesterolo 'cattivo') pari a 70 milligrammi per decilitro, con aggiunta di ezetimibe porta a un ulteriore beneficio. Questo può e deve avere implicazioni pratiche per i nostri pazienti". Così Gaetano Maria De Ferrari, professore di Cardiologia dell'università degli studi di Pavia, in occasione dell'incontro sulle terapie post infarto per prevenire ricadute che si è tenuto oggi a Roma all'Antico circolo di tiro al volo.
"Non deve essere più un alibi dire che siamo vicini a 70- spiega De Ferrari- Oggi la pratica comune è dire che se l'Ldl è intorno agli 85-90 'si è comunque vicini all'obiettivo'. Oggi che sappiamo che scendere sotto i 70 fornisce un ulteriore beneficio non abbiamo più scuse: dobbiamo come minimo raggiungere 70 nella gran parte dei pazienti".
"Per fare tutto questo abbiamo un arma in più- aggiunge De Ferrari- le ezetimibe che, come farmaco non statinico, hanno un effetto addizionale. Queste sono le due implicazioni pratiche che devono essere presenti nell'attività quotidiana".
"Lo studio è stato molto ambizioso- ha concluso De Ferrari parlando di Improve-it- sarebbe stato probabilmente facile che l'ezetimibe desse un vantaggio ulteriore con pazienti trattati in maniera non perfetta. Ma la decisione di prendere in esame pazienti che avevano già raggiunto l'obiettivo della società scientifica ha avuto un valore molto alto: ci ha portato in un territorio inesplorato, ovvero che raschiando il fondo del barile sotto i 70 c'è un beneficio addizionale. Per questo lo studio dovrebbe essere recepito dalle nuove linee guida".
Per Michele Massimo Gulizia, presidente dell'Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri (Anmco) e direttore della struttura di Cardiologia dell'ospedale Garibaldi-Nesima di Catania, "i pazienti hanno delle ricadute perché dimezzano la terapia. Più del 50% dei pazienti dopo un solo mese assume la metà della terapia prescritta. I numeri sono presto detti: la mortalità del paziente a domicilio supera lo 0,13% entro 60 giorni, mentre sale a 0,51% a 360 giorni. Questo perché, al pari dell'influenza, il paziente crede che l'infarto sia una malattia curata in ospedale e che con un po' di pillole ora sta meglio. La mancata aderenza del paziente alla terapia è un problema comune a molte malattie".
Infine, Claudio Rapezzi, direttore della Cardiologia del policlinico Sant'Orsola di Bologna: "Il medico deve coinvolgere il paziente culturalmente e psicologicamente, spiegando il perché di certe scelte terapeutiche e fornendo le medicie più efficaci e a più basso rischio. Bisogna abbassare il colesterolo 'cattivo': il recente studio Improve-it ci ha detto che il colesterolo più basso è meglio è. Il paziente che ha superato un infarto ha avuto tratti coronarici chiusi e poi riaperti con l'operazione, ma deve essere sottoposto per la sua vita successiva a terapia per evitare che capitino nel punto colpito e negli altri nuove occlusioni. Il problema però non è nei millimetri di coronaria chiusa ma nel sangue. Quindi è necessario mettere in campo strategie di prevenzione che per tutta la vita modifichino la tendenza di quel sangue a chiudersi e sviluppare trombi".
(Wel/ Dire)