Mons. Whalen: Ci aiutammo e nessuno provava rancore. Solo unione
(DIRE - Notiziario settimanale Esteri) New York, 14 set. - Il motto della scuola cattolica di Staten Island, dove mons. Edmund Whalen e' preside, recita: 'Uomini 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, 365 giorni all'anno'. Chissa' se i pompieri e i poliziotti che qui hanno studiato se lo sono ripetuto quella mattina dell'11 settembre 2001, mentre correvano, ignari o consapevoli del pericolo dentro le Torri Gemelle del World Trade Center di New York, appena centrato da due aerei. Ne sono morti 23 quando i due edifici si sono accartocciati e quei 23 nomi, ogni anno, alla vigilia di ogni 11 settembre vengono proclamati nell'anfiteatro della scuola: sono rimasti un modello per gli studenti, i loro confidenti, perche' mons. Whalen ha chiesto di scegliere uno di loro come compagno di vita soprattutto quando l'esistenza conosce piu' salite e piu' dirupi.
Ma l'11 settembre 2001 mons. Whalen era parroco nella chiesa di saint Benedict nel Bronx. Dalle finestre della scuola adiacente Manhattan era ben visibile all'orizzonte e ben visibili sono diventati ben presto il fumo e le fiamme che si levavano nella parte sud dell'isola dopo l'attacco terroristico. "Di quel giorno ricordo la risposta del quartiere alla tragedia- racconta al SIR il religioso- La nostra chiesa e' diventata un ricovero per gli operatori sanitari, i pompieri, la polizia e tutti coloro che erano ingaggiati nelle azioni di primo soccorso. Le strade erano chiuse e la gente ha camminato a piedi per ore prima di raggiungere la famiglia. In tantissimi hanno aperto le loro case per consentire una sosta o il riposo anche per i "first responders" (i primi soccorritori). E non dimentico la nostra parrocchia, strapiena di gente venuta a pregare".
Mons. Whalen ricorda con tenerezza che "sebbene avessimo perso tanti parrocchiani, tra noi non c'era rabbia o scoraggiamento, anzi cercavamo di incoraggiare le persone, di contattare le famiglie per consentire ai dispersi di raggiungerle e riunirsi. In quei frangenti ho colto che la forza veniva come non mai dalla nostra vocazione cristiana, dalla fede".
Anche nei giorni successivi alla tragedia "c'era un sentimento unico che attraversava tutta la citta' ed era quello del prendersi cura- prosegue al SIR mons Whalen- Prendersi cura degli agenti che lavoravano senza sosta e delle famiglie che avevano perso qualcuno, o dei bambini di quella mamma che cercava il marito e proprio perche' uno della parrocchia li ha tenuti con se', lei e' corsa a Manhattan per capire cosa fosse successo. Ci sono state scene commoventi e non c'era rabbia o vendetta, ma un senso di unita', di responsabilita' verso tutti, soprattutto verso chi aveva perso un genitore: era di loro che dovevamo occuparci e non sull'onda dell'emozione ma anche dopo, nel futuro". Amare l'altro "era l'unico modo di dare senso a quello che non aveva senso, era dare una risposta ad una perversione della religione, era confortare il frutto dell'odio e del male".
Ai sacerdoti come mons. Whalen "e' stato chiesto di restare all'obitorio, un'enorme tenda bianca sull'East river, per pregare e benedire i brandelli di corpo che venivano portati. E poi ci hanno chiesto di stare vicino ai soccorritori. Ricordo una notte fredda e piovosa, tra fine settembre e i primi di ottobre quando seduto su una borsa frigo bevevo punch caldo con una persona dell'agenzia governativa per i disastri. Era agnostico. Ad un certo punto mi dice: 'Quando tutto questo sara' finito, voglio parlarti a fondo e voglio capire il senso della tua presenza qui, perche' fai quello che stai facendo'. Era colpito dal fatto che tanti dei pompieri o degli agenti o dei soccorritori accorsi per primi nelle torri e uccisi dal loro crollo fossero cattolici.
'Loro sapevano a cosa andavano incontro e sono anche consapevoli che scavando tra le macerie quelle polveri li uccideranno - continuava il funzionario - eppure sono li' e non si muovono e non c'e' rabbia o vendetta nel loro sguardo'. E io dentro di me pensavo a quei 23 morti appartenenti alla mia scuola che magari in quel momento si erano ripetuti che dovevano essere cristiani tutto il giorno e 7 giorni su 7.
E infine mi ha detto: 'Sono arrivati a tutte le ore portando magari un dito o un braccio e tu sei stato qui ad accogliere tutti con grande rispetto e cura. Deve esserci qualcosa nella tua religione per riuscire a trattare cosi' questi corpi'. Mi sono commosso. La testimonianza del Vangelo non aveva bisogno di parole".
Dopo l'11 settembre, i rapporti con la comunita' musulmana, vista la provenienza dei terroristi, sono stati complessi, come testimonia al SIR mons. Whalen: "Alcuni hanno avuto difficolta' nei rapporti, ma non nella nostra scuola, dove non si distingue tra chi sia cristiano, musulmano o ebreo e tutti si vedono come persone. Le scuole hanno un grande ruolo nel sentire sociale perche' possono instaurare tra i ragazzi un cameratismo che dura per tutta la vita. A Staten Island c'e' un bel rapporto con la moschea locale, ma tanto dipende dalla fede di un luogo, dai quartieri dove si vive, dal senso di comunita'".
Ora c'e' un'altra difficolta' da superare: "il rischio che per i giovani questo fatto diventi storia da manuale, senza possibilita' che ne facciano esperienza. E' anche per loro che la vigilia dell'11 settembre di ogni anno celebro la messa e faccio leggere i nomi delle vittime, perche' sentano che e' reale e non un evento estraneo".
Perche', secondo il preside della scuola cattolica di Staten Island, la lezione da imparare da quegli attentati "e' il potere dell'amore e dell'unita'. L'11 settembre ha lasciato un marchio in ogni persona e c'e' chi ha risposto con rabbia e chi invece ha trovato la fede. Noi proviamo a non dimenticare. Noi ricordiamo sempre i nomi degli ex allievi che sono morti quel giorno e li preghiamo: anche la squadra di basket, prima di ogni partita, passa in preghiera davanti al giardino con quei nomi, perche' se hanno dato la vita come l'hanno data, e' perche' l'hanno imparato tra questi banchi e sono diventati, in un certo senso, degli eroi. Queste sono persone vere ed e' per questo che chiedo ad ogni studente di scegliere un nome che lo accompagni nel cammino della vita, nei dubbi e nelle gioie", conclude.
(Red/ Dire)