Onu: Minoranza musulmana oggetto di violenze senza precedenti
(DIRE - Notiziario settimanale Esteri) Roma, 4 mag. - Una comunita' musulmana in un Paese a maggioranza buddhista. Una minoranza che l'ONU ha definito tra le piu' perseguitate al mondo. I Rohingya sono un popolo con una forte identita' etnica, religiosa e linguistica, ma senza Stato. Il Myanmar, infatti, si rifiuta di riconoscere queste persone come cittadini. E nessun altro Paese vuole concedergli la cittadinanza. Ritenuti dal Paese "una minaccia per la razza e la religione", da decenni i Rohingya sono vittime di politiche discriminatorie e di azioni violente da parte delle forze di sicurezza del Myanmar. Repressioni compiute in nome della sicurezza nazionale, per via di possibili infiltrazioni di gruppi estremisti tra i musulmani Rohingya, e solo recentemente la comunita' internazionale ha iniziato timidamente a denunciare un tentativo di pulizia etnica nel Paese. Su 51 milioni di abitanti, i Rohingya presenti in Myanmar sono poco piu' di un milione. Vivono nella regione del Rakhine State, che si estende lungo la costa ed e' considerata una delle zone piu' povere del Paese, con un accesso limitato ai servizi di base e scarse possibilita' di sussistenza per la popolazione.
Secondo le stime del governo birmano, 750mila persone risiedono nel nord del Rakhine State (Nrs), nelle citta' di Maungdaw e Buthidaung, vicino al confine con il Banlgadesh.
Mentre il resto della comunita' vive nelle zone centrali e meridionali, dove si contano circa 120mila sfollati interni, registrati presso i campi governativi. Inoltre, nel settembre del 2016, l'Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) stimava che oltre 32mila persone fossero registrate nei due campi di Kutupalong e Nayapara, in Bangladesh. Ma i musulmani Rohingya presenti nel Paese sarebbero decisamente di piu', con cifre che oscillano tra le 300mila e le 600mila persone, distribuite in villaggi e comunita' ospitanti. Se gli spostamenti principali avvengono ancora sulla terraferma, in questi anni i migranti Rohingya hanno tentato di raggiungere la Malesia, l'Indonesia e il Bangladesh anche via mare, a bordo di barconi.
Quando si fa riferimento al Mare delle Andamane, a sudest del Golfo del Bengala e parte dell'Oceano Indiano, i termini della discussione sui viaggi in mare dei Rohingya sono molto simili a quelli utilizzati per affrontare il tema dei flussi migratori nel Mar Mediterraneo. Rotte dei migranti, chiusura delle frontiere, trafficanti di uomini, network criminali. Con la differenza che, in queste acque, tutti i Paesi si sono rifiutati di portare avanti attivita' di soccorso in mare, pur avendo firmato almeno una delle convenzioni internazionali sul Sar (Search and rescue). Cosi', nel 2015, migliaia di persone sono state abbandonate in mare per giorni, respinte da tutti i governi della regione, in quello che l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha definito "un ping pong marittimo con le vite umane". Lo stesso Bangladesh, in alcune occasioni, ha rifiutato delle imbarcazioni negando ai profughi l'accesso agli aiuti umanitari. Le cause principali della fuga sono lo status legale incerto e le conseguenti repressioni subite nel Rakhine State.
In Myanmar, in base a una legge approvata nel 1982 durante la dittatura militare, i musulmani Rohingya non godono della piena cittadinanza, in quanto non appartengono a una delle 135 minoranze etniche riconosciute. A partire dal 1982, molti di loro hanno ricevuto una carta provvisoria, che certificava la loro identita' ma non la cittadinanza birmana. Da quel momento, e' iniziato un processo di verifica dei documenti, al quale molti Rohingya si sono sottratti poiche' imponeva di auto-dichiararsi Bengali (originari del Bangladesh, quindi, immigrati irregolari), di fatto rinunciando alla propria identita'. Dal giugno del 2016, quest'obbligo e' venuto meno su indicazione di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991 e oggi consigliere di Stato della Birmania, ministro degli Affari Esteri e ministro dell'Ufficio del presidente. Tuttavia, se la minoranza musulmana non e' piu' costretta a dichiararsi Bengali, non puo' nemmeno definirsi Rohingya.
Proprio la leader birmana Aung San Suu Kyi, consapevole del sentimento anti-musulmano molto diffuso in Myanmar, ha chiesto ai diplomatici stranieri di non usare il termine "Rohingya", preferendo l'espressione piu' generica di "comunita' musulmana nel Rakhine State". Il mancato riconoscimento della piena cittadinanza preoccupa l'Arakan Project, organizzazione impegnata nel monitoraggio delle violazioni dei diritti umani in Asia, con particolare attenzione ai Rohingya. In tutta l'area, l'Associazione registra da tempo una malnutrizione diffusa, difficolta' nell'accesso all'educazione e al sistema sanitario, violenze fisiche nei confronti delle donne, arresti arbitrari di adulti e minori, sparizioni forzate e uccisioni. Inoltre, la presenza dei checkpoint rende difficili gli spostamenti interni, limitando la liberta' di movimento delle persone. Anche l'Ufficio dell'Alto Commissario per i diritti umani dell'Onu (Ohchr), nel suo ultimo rapporto, ha registrato un livello di violenza contro i Rohingya senza precedenti.
Solo tra l'ottobre 2016 e il gennaio 2017, in un periodo di forti repressioni in seguito ad alcuni scontri tra islamisti e polizia di frontiera, 66mila persone avrebbero oltrepassato il confine con il Bangladesh. Sarebbero invece 22mila i nuovi sfollati interni. Sulle base delle testimonianze raccolte tra le vittime Rohingya, l'Onu riconosce che queste azioni rappresentano "molto probabilmente crimini contro l'umanita'". Per verificare questi crimini commessi dalle forze di sicurezza, l'Onu ha annunciato l'avvio di una Fact Finding Mission in Myanmar. Un'indagine sul campo doverosa, secondo la comunita' internazionale. Un'azione "inaccettabile" per l'ambasciatore birmano presso le Nazioni Unite, Htin Lynn, il quale ha chiesto di lasciare che il popolo del Myanmar "scelga il percorso piu' efficace da seguire per affrontare le sfide del Paese". Per il momento, quindi, mentre il Myanmar attraversa una lunga fase di transizione da dittatura militare a Paese democratico, i soprusi sistematici contro la minoranza Rohingya restano impuniti.
(www.lookoutnews.it) (Red/ Dire)