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La vita in polvere, diario da Amatrice: memorie di una tragedia FOTO

Il reportage fotografico della DIRE realizzato la mattina del 24 agosto, poche ore dopo il sisma che ha distrutto la città

Pubblicato:31-08-2016 16:13
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 09:01

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AMATRICE (Rieti) – Il terremoto è grigio. Grigio è il colore dell’infinita distesa di sassi e calcinacci che ha preso il posto degli edifici di un tempo, così come è il colore della polvere che ricopre tutto: dalle strade, alle auto in sosta, spesso schiacciate da travi o pezzi di muro, dalle aiuole e dagli alberi urbani ai verdognoli busti di bronzo spesso presenti nelle nostre piazze.

Quello che mi ha sempre colpito durante una visita ad un’area colpita da un terremoto è la scomparsa dei colori. Come all’Aquila nel 2009 anche Amatrice era del tutto grigia. Dimenticate i colori pastello, rosa, arancione o turchese, che caratterizzano molti edifici dei nostri Comuni e delle nostre città. Scordate anche il giallo della pietra viva dei muri dei borghi medievali, spesso appenninici, di cui l’Italia è abbondante. Quando arriva un sisma di magnitudo superiore ai 6 gradi quello che resta alla vista è un cumulo di macerie incolore, un grigio-marrone che ricopre tutto: le facciate delle case, i colori brillanti delle vetrine dei negozi. Quelli degli abiti delle persone, dei quadri, dei poster o semplicemente dei dorsi dei libri nelle librerie delle stanze esposte ai sopravvissuti. Già perché tutto quello che un tempo era custodito con grande riservatezza dentro le comuni abitazioni viene violentemente mostrato agli occhi del mondo, dentro palazzi senza più facciata, o in villini tramutati in montagne di macerie. Si rivelano senza pietà camere da letto con specchi alle pareti, i luoghi sacri della nostra privacy come i bagni, salottini curati con amore per anni dai loro padroni. Spesso la vista è disorientata, perché magari il pavimento ora è in diagonale, o manca del tutto. Perché i muri sono bucati come se fossero stati trafitti da missili o perché tre piani di villino, accartocciati da un terremoto di questa violenza, non sono più alti di un cumulo di macerie di un metro e mezzo, massimo due, di altezza.


“Dove sono gli oggetti delle persone che vivevano lì?” Mi sono sempre chiesto. Dopo un attimo di smarrimento la risposta è naturalmente sotto gli occhi. Tutti gli oggetti di una persona, quelli che nell’epoca del consumo siamo soliti definite “tutta la nostra vita”, sono sotto le rovine. Anch’essi senza più colore. Ad Amatrice sono riuscito ad intravedere una scarpa, una coperta a scacchi e un vecchio televisore con il tubo catodico. Tutto il resto, come all’Aquila o ad Onna era ricoperto da quella polvere mortale che invade ogni angolo, ogni pertugio, insinuandosi negli intimi luoghi dove un tempo le famiglie si riunivano per una cena, un pranzo, per vedere un dvd, o leggere un romanzo.

Le città, così come comunemente ce le immaginiamo, ovvero strade asfaltate, negozi e ristoranti ai piani bassi, vasi colorati alle finestre e cartelloni pubblicitari qui o là, e naturalmente persone in movimento, vengono annullate. Tutto sparisce. Lì c’era quell’enoteca con le tovaglie a scacchi rossi sui tavoli all’aperto, lì una tabaccheria con un’insegna al neon e poco più in là una serie di macchine metallizzate parcheggiate sul marciapiedi. Ora giocano a nascondino con la polvere. Si mimetizzano nel grigio dominante del conteso. O semplicemente sono scomparsi alla vista, sotto tonnellate di mattoni e tetti divelti di cemento armato. Anche gli esseri umani, purtroppo, subiscono la stessa sorte: anche loro diventano grigi, ricoperti da ceneri e pulviscoli. Per fortuna i soccorritori non li mostrano agli osservatori come me nella loro nuda sorte. I cadaveri sono ricoperti da un telo, una coperta, qualsiasi cosa possa preservarne la dignità agli occhi del mondo, affamati da quella morbosa curiosità che ti prende spesso alla vista della morte. Altrimenti anche la morte si mostrerebbe grigia e polverosa come quella dei monumenti sbriciolati e delle case disintegrate. Polvere siamo e polvere ritorneremo.

Foto e testo di Emiliano Pretto, giornalista professionista

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