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Il racconto di Silvia Costa (Pd): In Ungheria Orban viola in diritti umani e tradisce l’Europa

"Tornando dall'Ungheria tutti noi della missione Pd abbiamo preso un impegno: denunciare quello che succede in Ungheria"

Pubblicato:29-09-2015 13:27
Ultimo aggiornamento:16-12-2020 20:35

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ROMA – “Tornando dall’Ungheria tutti noi della missione Pd abbiamo preso un impegno: denunciare quello che succede in Ungheria come violazione dei diritti umani e come smacco dell’Europa“. Così Silvia Costa (Pd), presidente della Commissione Cultura dell’Europarlamento, dopo la missione in terra ungherese con altri colleghi parlamentari italiani. Silvia Costa ha postato ai suoi amici il racconto del viaggio, che qui riportiamo.

silvia costa in ungheria

Il racconto si Silvia Costa


“No walls in Europe” questo il messaggio, scritto con il pennarello su un cartello bianco messo ieri sera all’imbrunire sull’alta rete metallica con filo spinato che ora separa l’Ungheria dalla Croazia. Il gesto finale e simbolico di una missione compiuta in questi tre giorni in Ungheria alle frontiere con l’Austria e la Croazia con colleghi del PD dei Parlamenti europeo e italiano voluta fortemente con la collega Patrizia Toia. Forse lo leveranno.

Ma so che ci saremo noi a parlare e ad agire. Ce lo siamo detti con Nicola Danti, Flavio Zanonato, Roberto Cociancich, Sandra Zampa, Laura Garavini e Mauro Del Barba, i parlamentari Pd europei e nazionali con cui abbiamo compiuto questa importante missione, accompagnati dal consigliere dell’Ambasciata italiana Paolo Di Giandomenico, disponibile e competente. Ungheria i profughi non entrano più e che quello che Orban chiama corridoio (senza la parola umanitario!) è in realtà una fredda operazione di trasferimento con loro treni dai valichi di frontiera interni ed esterni all’area Schengen. Dai 10 treni attesi ieri alla stazione di Hegyeshalom, al confine con l’Austria, con più di mille persone ciascuno, provenienti dalla frontiera croata, le famiglie, i bambini, i tanti giovani vengono fatti scendere con l’ausilio della Croce Rossa ungherese e dell’Ordine di Malta. A piedi percorrono circa 4 km come testimonia una lunga sequenza di fagotti, coperte, scarpe, lasciati sul tragitto, fino al confine austriaco dove solerti poliziotte e poliziotti, con umanità ed efficienza (?) insieme ad associazioni umanitarie, li accolgono in uno spazio attrezzato per 10 mila persone e tende per 400. Qui sono rifocillati, divisi in piccoli gruppi, informati sulla loro successiva partenza e luogo di destinazione. Nel giro di qualche ora (raramente sostano lì oltre le 12 ore) sono imbarcati su pullman che li trasferiscono ai centri allestiti a Vienna, Salisburgo, ed altre città.

Da qui la stragrande maggioranza, soprattutto dei siriani, va verso la Germania. Qualcuno di loro ci parla di una campagna di poster che nel loro Paese li invita ad andare li. In dieci giorni sono arrivate qui 80 mila persone e ormai anche il governo austriaco è in difficoltà. Come la Croazia. Anche perché l’Ungheria, dopo i 250 Mila profughi arrivati da loro quest’anno ma già transitati altrove, ha di fatto chiuso le frontiere e applicato formalisticamente (ma fittiziamente, secondo molti) “Le norme Schengen”, ovvero la registrazione ai posti di frontiera e accesso solo a chi ha diritto a protezione internazionale. In realtà i profughi vengono lasciati in una sorta di “no man’s land”, contestata dalle ONG umanitarie perché in realtà si tratta di suolo ungherese, dove avviene un primo filtro che accetta solo famiglie, minori e soggetti vulnerabili. Ma le regole sono molto discrezionali e comunque i maschi soli o parenti che non siano genitori non possono accedere. Solo dopo questo screening si può procedere alla eventuale presentazione di una richiesta del riconoscimento dello status di rifugiato. Va da sé che le modalità della “detenzione” e la lunga attesa in condizioni disagiate ha ormai scoraggiato la stragrande maggioranza dei profughi a presentarsi e chi era entrato a rimanerci. E infatti sono davvero pochi gli status di rifugiati rilasciati in Ungheria.

Basti pensare che (dati ufficiali) dall’inizio dell’anno ci sono state 175.404 richieste di asilo (ma la gran parte dei richiedenti, secondo l’ufficio ungherese per l’immigrazione, lascia il territorio ungherese senza attendere l’esito); circa 330 richieste accolte; 2.000 richieste rifiutate; 111.950 i casi in corso (e quindi circa 60.000 casi non ancora aperti per il loro esame).

Ma dal 15 settembre è in vigore la nuova legge che rende reato penale entrare illegalmente o danneggiare il filo spinato messo ai confini con Serbia e Croazia. E così da settembre sono state presentate solo poco più di 3000 richieste. Mentre sembra che i detenuti per questi reati siano già 300, in continuo aumento. Questa normativa limita anche l’azione della Croce rossa ungherese e delle ONG umanitarie nel soccorrere chi è alla frontiera. La decisione del soccorso ora infatti spetta ai poliziotti.

Il governo Orban dice di rispettare le Convenzioni internazionali. Ma proprio il 17 settembre è arrivata una durissima dichiarazione dell’Alto Commissario ONU per i diritti umani: la legge che introduce il reato penale di ingresso illegale e le misure adottate dopo il 15 settembre – si dichiara- costituiscono una “violazione macroscopica e ai più livelli degli obblighi dell’Ungheria nel rispetto dei diritti umani”. E alcune ONG hanno dettagliato gli specifici ambiti. Basti pensare che al centro della CRI, al confine con l’Austria, ci sono oggi solo 24 persone! Nessun profugo ormai vuole andare in Ungheria e la Croce rossa riferisce che si rifiutano anche di salire su una autoambulanza ungherese!

Si è infatti operato nella direzione di una dissuasione di massa, non si prendono in carico le persone come richiedenti asilo ma come “sfida militare che minaccia la sovranità della nazione” (scrive l’Hungarian Helsinki Committee); ci si è rifiutati di partecipare alla ripartizione dei rifugiati decisa dal Consiglio dei ministri europei, si è allestito un muro di filo spinato lungo il confine con la Serbia e Croazia, ed ora se ne annuncia uno con la Romania “perché non è in zona Shenghen”. L’accordo bilaterale con l’Austria cui auspica Orban, come ha dichiarato alla stampa il 25 settembre ( “noi e l’Austria siamo sulla stessa barca”) è in realtà lo strumento per una massiccia operazione di scaricabarile in cui i magiari procurano le “navette” e gli altri si prendono cura dei rifugiati, li ospitano e li riallocano.

Così si aggirano le convenzioni internazionali e la direttiva europea sull’asilo che prevede un obbligo di accogliere e registrare i profughi che sono alla frontiera di uno Stato Membro e di procedere alla verifica del loro status. Quelli che abbiamo incontrato dopo il confine austriaco sono in massima parte siriani, afghani e -meno- irakeni e alcuni pakistani. Giovani e giovanissimi uomini che parlano di famiglie decimate o ospitate in campi profughi in Libano, Giordania o Turchia. Giovani cui la guerra ha precocemente conferito il ruolo di capo famiglia. La loro non è una fuga solitaria ma benedetta e accompagnata dalle aspettative delle loro famiglie di potersi un giorno ricongiungere. Ci sono mamme e bambini finalmente sorridenti e speranzose che gli autobus allestiti dal governo austriaco li condurranno verso il sogno di riprendere una vita serena, lontano da guerre, persecuzioni e fame, per offrire un futuro ai loro figli.

Ad accoglierli in Austria al loro arrivo a Nickelsdorf, la gentile responsabile della polizia austriaca che ci spiega come hanno organizzato l’accoglienza, come intendono ampliare il numero di tende anche se l’arrivo del freddo rende preferibile un rapido turnover per raggiungere i centri di destinazione con strutture più adeguate. Incontriamo un poliziotto italiano che collabora attivamente. E mi trovo accanto Daniela Pompei e un suo collega ungherese della Comunità di Sant’Egidio: una conferma del loro grande impegno anche qui. Negli scorsi giorni hanno lanciato un appello ai parlamentari ungheresi perché non sostenessero la proposta di legge avanzata dal Governo, che consente alla polizia di entrare nelle case private per verificare se ospitano rifugiati. In realtà la legge è stata approvata anche se con una modifica che prevede che la decisione sia presa da un dirigente della polizia. Ma non si menziona la Magistratura!

Parliamo con alcuni profughi. Sei diciassettenni afghani sono appena saliti su un bus, tre ragazze e tre ragazzi. Con un viaggio di sei giorni (a piedi e in bus) sono arrivati via Turchia e Grecia fin qui. Sono studenti e vorrebbero riprendere gli studi o trovare un lavoro.

Parliamo con un insegnante siriano di Latakia, sfuggito ai bombardamenti ma che ha visto morire in un solo giorno tre fratelli, ammazzati dalla polizia di Assad, solo perché camminavano per la strada per portare viveri alla famiglia. Senza padre, una madre in ospedale in Turchia e sei sorelle da aiutare, cerca un futuro in Olanda “perché lì sono aperti e organizzati”. Con lui un folto gruppo di suoi connazionali, di Homs. Uno di loro, affranto, mi mostra un documento dell’UNHCR con le foto della moglie e dei quattro figli ospiti di un campo profughi in Turchia. In fila, sono in attesa di salire sul bus. Finalmente.

Una radio ungherese mi intervista tra le due frontiere, in quel comodo limbo/alibi inventato dal Governo ungherese e che i profughi devono percorrere a piedi. Gli dico che per noi e per l’Europa non si tratta di una semplice questione di immigrati ma di una crisi umanitaria, che il Governo Orban non se ne fa carico, che è grave aver adottato una criminalizzazione dei profughi. Ho lanciato anche un appello al Governo perché stanzi i fondi per la Croce rossa ungherese che (come altre ONG) non ha risorse per allestire container per l’inverno.

I flussi via terra che passano dalla Turchia sono infatti in aumento sia perché l’itinerario e’ più breve e meno insicuro sia perché con la stagione fredda si riducono gli arrivi dal Mediterraneo.

Molto più inquietante e livida è la situazione alla frontiera con la Croazia, dove arriviamo nel pomeriggio: minacciosi carri armati e soldati con mitra sono accanto a malandati bus con spauriti profughi in attesa da ore di essere avviati verso la frontiera con l’Austria. Qui emerge ancora più tragicamente quell’impersonale, algida interpretazione del “corridoio” di Orban che non prevede empatia, informazioni rassicuranti a chi viene da storie e percorsi drammatici, che non rispetta gli standard di accoglienza anche per quanto riguarda tempi e modalità di ascolto delle persone (come ci denuncia Aniko Bakoni responsabile della Helsinki Commettee) ma si affretta a liberarsi di questo fardello, scaricandolo sugli altri Paesi, come conferma Tamas Lederer di Migration Aid, una associazione ungherese di advocacy e di assistenza nata sulla rete che ora insieme ad altre simili ha chiesto al Ministero degli interni il riconoscimento come ONG. Ma gli è stato amabilmente suggerito di non fare riferimento a profughi o ai rifugiati nella loro mission ma solo ai poveri o vulnerabili. Una conferma della invisibilità cui viene ricondotta la questione.

Salvo – ci spiega Tomas – quando il governo ha fatto l’errore questa estate di lasciare molti profughi a bivaccare alla stazione per meglio spaventare i cittadini e “creare il nemico”, come ha scritto in questi giorni la grande scrittrice e filosofa ungherese Agnes in una intervista dal titolo eloquente “Prima erano gli ebrei ora sono i profughi”. Un errore fatale perché molti ungheresi hanno invece visto la realtà umana e vulnerabile dietro la propaganda ed è scattata in molti la solidarietà. Come in tanti altri Paesi del Nord est europeo che hanno vissuto in questi mesi il “loro” Mediterraneo. E giganteggia per noi italiani l’esempio di un Paese, il nostro, che non solo non ha girato il viso da un’altra parte ma si è spinta al largo a trovare e salvare vite, che li ha ospitati, accolti e curati. Perché prima ha visto le persone. Una solidarietà spontanea che si è sviluppata anche da queste parti, al punto di far cambiare idea ad alcuni governi, inclusa la Germania e la Polonia

La prospettiva che si apre, per l’Europa e per la nostra responsabilità politica, con la grande pressione su Croazia, Austria e Slovenia, le continue chiusure di frontiere e l’inadeguatezza delle 120 mila riallocazioni approvate dal Consiglio dei ministri europeo senza avere quote obbligatorie e un sistema permanente di permessi umanitari, insieme al rifiuto di accogliere i profughi da parte di quattro grandi Paesi Ue (oltre l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Romania), è davvero complessa. Diventa assolutamente urgente, come avevamo chiesto nella nostra risoluzione in Parlamento europeo, superare la convenzione di Dublino per consentire un sistema permanente di permessi umanitari, corridoi assistiti, ampliamento di quote obbligatorie e soprattutto la definizione di un vero sistema europeo di Asilo, a cui sta lavorando l’ Alto Rappresentante UE Federica Mogherini.

Serve soprattutto una consapevolezza più ampia e solidale della sfida umanitaria in corso, da parte delle Nazioni Unite, come ha perorato anche Papa Francesco.

Alla vigilia della Conferenza sulle migrazioni indetta da Ban Ki-moon per il 30 settembre, noi parlamentari Pd dobbiamo lanciare un appello perché si agisca in due direzioni: sul piano politico diplomatico, in Libia e in Siria. Un rifugiato siriano ci ha chiesto accorato: “l’Europa e gli USA ci aiutino a non obbligare milioni di siriani ad abbandonare il loro paese. Dobbiamo mandar via Assad e avere finalmente un regime democratico”. Mi ricorda quello che aveva inutilmente chiesto anche padre Paolo Dall’Oglio, uomo e religioso del dialogo, rapito quasi tre anni fa in Siria, che criticava il regime e temeva la radicalizzazione dei ribelli come poi è avvenuto con il Daesh.

E occorre agire sul piano umanitario e politico per condividere responsabilità e risorse verso questi fratelli e sorelle in fuga da guerre, persecuzioni e fame.

Per questo e ‘ importante che la UE abbia raccolto l’appello lanciato prima dalla Serbia e raccolto da Elhan Sajem segretario generale della Federazione internazionale della Croce rossa e Mezzaluna rossa a svolgere una Conferenza internazionale sulla crisi dei rifugiati. Alberto Monguzzi, il giovane rappresentante della IFRC Croce Rossa Italiana, ci spiega con quali incredibili sfide organizzative e finanziarie, ma soprattutto di ripensamento logistico si stiano confrontando lungo i percorsi di questa migrazione biblica.

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