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Centrafrica, chiude campo profughi nell’aeroporto di Bangui

Era aperto da tre anni ed era diventato luogo-simbolo della crisi che dal 2013 è scoppiata nel Paese

Pubblicato:27-01-2017 16:47
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 10:50

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Foto Sven Torfinn

ROMA – Centinaia di migliaia di persone stipate lungo le piste di atterraggio o intorno agli aeroplani, usati come abitazione o sostegno per le tende e le baracche. Questa è la foto di Mpoko, campo profughi all’interno dell’aeroporto internazionale di Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, diventato luogo-simbolo della crisi che dal 2013 è scoppiata nel paese. Questo luogo è arrivato ad ospitare fino a 100mila sfollati alla volta: persone in fuga dalle violenze di una guerra senza quartiere, che tra i militari e il personale internazionale presente cercava protezione. Ora le autorità ne hanno stabilito la chiusura, e per Medici senza frontiere – ong presente assieme ad altre nel campo – questo significa condannare alla precarietà le ultime 20mila persone che lo abitavano e che sono state costrette a lasciarlo.

 


“La chiusura di Mpoko è una buona notizia e un segno di stabilizzazione del paese- ha detto Loris De Filippi, presidente di Msf che ha lavorato in Repubblica Centrafricana all’inizio della crisi-. Ma le persone hanno ben poco a cui tornare e un quarto della popolazione vive ancora lontano dalle proprie case”. Msf denuncia che chi torna a casa, dovrà affrontare “condizioni di insicurezza, infrastrutture fatiscenti, abitazioni crivellate, con 150 euro per famiglie di sei membri per ricominciare a vivere”. Questi tre anni di crisi e di brutalità inaudita, denuncia De Filippi, “sono passati quasi inosservati, con l’eccezione dell’immagine simbolica di Mpoko: un mare di sfollati accalcati tra le carcasse degli aerei. Ora quel simbolo è scomparso, ma i problemi del paese restano”.

Chi in questi 36 mesi è arrivato con le proprie gambe ha portato con sé racconti terribili: “Abbiamo visto arrivare gente senza nasi, orecchie, capezzoli… Un ragazzo è arrivato tenendosi la testa per evitare che cadesse dopo essere stato tagliato con un’ascia su entrambi i lati del collo. E’ stato terribile”, la testimonianza di un membro dello staff, Lindis Hurum. Msf condanna anche il silenzio della comunità internazionale: “a parte la presenza militare delle Nazioni Unite e della Francia- si legge ancora nella nota- il paese non ha visto una mobilitazione di aiuti internazionali adeguata agli enormi bisogni della popolazione. Gli sfollati a Mpoko hanno vissuto in estrema precarietà”.

 

Le équipe di Msf hanno costruito un ospedale da campo con 60 posti letto pochi giorni dopo l’arrivo delle prime famiglie, nel 2013. Qui hanno lavorato mille giorni, “offrendo servizi sanitari anche al di fuori della popolazione del campo. Al momento della chiusura, due terzi dei pazienti dell’ospedale veniva da fuori, perché non c’erano altri servizi medici gratuiti ed affidabili a loro accessibili”. “Mpoko è stato un progetto davvero speciale- racconta Francesco Di Donna, coordinatore medico di Msf-. Abbiamo costruito l’ospedale in pochi giorni, con assi di legno e tela cerata, in un’area in cui non c’era nulla”. In questi mille giorni Msf ha visitato 440mila persone, effettuato 46mila interventi medici e 11mila ricoveri. Hanno visto inoltre la luce 5.807 neonati. Infine, Msf ricorda che solo nel 2016 nel Paese “ha speso 55 milioni di euro per sostenere 17 programmi medici in nove prefetture. Questo importo supera il budget sanitario nazionale ed è notevolmente più alto rispetto agli investimenti di qualsiasi governo donatore”.

di Alessandra Fabbretti, giornalista

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