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Rapporto annuale dell’Istat: quando l’economia stenta, le diseguaglianze crescono

di Roberto Volpi per www.agensir.it Non si

Pubblicato:26-05-2017 10:50
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:16

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di Roberto Volpi per www.agensir.it

  • Non si redistribuisce la ricchezza se si arretra, la decrescita felice è felice solo nella mente dei suoi propugnatori. La crescita non necessariamente è benessere, così come lo sviluppo economico non è sempre indice di progresso, tutto vero, ma benessere e progresso è più facile trovarli dove ci sono crescita e sviluppo piuttosto che il contrario

Partiamo da un punto chiaro, anzi chiarissimo, da quel punto che, per quanto collocato alla coda del Rapporto annuale 2016, meriterebbe di starne in cima: “Alla fine del lungo periodo di crisi”, dice dunque l’Istat, “la diseguaglianza è aumentata nella maggior parte dei paesi europei. Le difficili condizioni dell’economia hanno influito in particolare sui livelli di diseguaglianza (lavoro e capitale)”.
Ecco quanto:

quando l’economia stenta, boccheggia, arretra non c’è niente da fare, le diseguaglianze crescono.

Succede di norma il contrario quando l’economia viaggia, ha respiro, dà respiro. È la stessa regola per cui l’indice di concentrazione della ricchezza è mediamente più alto nelle regioni del Sud che in quelle del Nord, in quelle più povere che non in quelle più ricche. Non si redistribuisce la ricchezza se si arretra, la decrescita felice è felice solo nella mente dei suoi propugnatori. La crescita non necessariamente è benessere, così come lo sviluppo economico non è sempre indice di progresso, tutto vero, ma benessere e progresso è più facile trovarli dove ci sono crescita e sviluppo piuttosto che il contrario.


Dice ancora, l’Istat, che “solo l’intensificarsi dell’azione redistributiva pubblica ha mitigato l’incremento della diseguaglianza dei redditi disponibili”, ma aggiungendo subito che “la capacità redistributiva dell’intervento pubblico è in Italia tra le più basse in Europa” e che “nel corso della recessione è aumentata meno che altrove mostrando la difficoltà del sistema welfare nel contrapporsi alle forze di mercato”. Qui il ragionamento dell’Istat si fa, per la verità, assai poco istituzionale. Ma non tanto per una questione che conosciamo, e di nuovo purtroppo confermata, ovvero che da altre parti, in altri paesi sono più bravi di noi a redistribuire la ricchezza per contrarre la povertà (che infatti in Italia non si riduce), quanto per l’accento posto sulle “difficoltà del sistema welfare nel contrapporsi alle forze di mercato”. In verità, quel “contrapporsi” è un termine così netto e oppositivo da essere la spia di un difetto nostro, italiano, nella concezione dei rapporti sociali e produttivi, come se alle forze di mercato l’intervento pubblico non potesse, attraverso il sistema del welfare, che “contrapporsi” per essere davvero ri-equilibratore.

Difficile immaginare che in Germania e nei paesi europei del cosiddetto capitalismo sociale penserebbero mai di dover “contrapporre” l’intervento pubblico alle forze del mercato. Al contrario, in questi paesi le forze del mercato hanno una possibilità di espressione più libera e ampia, ancorché meno improvvisata, più condivisa tra le componenti socio-produttive, meglio orientata dallo stato di quanto non sia in Italia.

Il nostro sistema di welfare funziona piuttosto poco e male non perché non si contrappone abbastanza ma semmai proprio perché troppo integrato nelle distorsioni di fondo del sistema-paese. Tant’è vero che, parole sempre dell’Istat, “la gran parte dell’azione redistributiva è attribuibile ai trasferimenti pensionistici che, nel caso di pensionati senza altra fonte di reddito, assicurano un reddito disponibile a persone con un reddito di mercato nullo”. Ora, è vero che a noi italiani, per essere abituati a questa realtà, una annotazione così rivelatrice di tutti gli scompensi socio-economici del nostro paese non ci toglie il sonno, però sarebbe l’ora di finirla con l’accettare come inesorabile, e inalterabile, una conclusione di questa portata riguardo al nostro welfare. Perché significa, vedendo il problema dall’altra parte della barricata, per così dire, che le pensioni continuano a rappresentare una quota del welfare che non ha pari in Europa.

La popolazione invecchia a ritmi formidabili, siamo con pochissime nascite annue e ultraottantenni che aumentano a vista d’occhio. Senza dare campo a una piena, ancorché monitorata ed eventualmente corretta, espressione delle forze di mercato – come invece tra burocrazie inamovibili e potenti apparati tecnico-amministrativi si stenta terribilmente a fare – siamo bell’e spacciati. Questa è la verità, e non è certo un caso se, per quanto fuori dalla grande depressione, e per quanto “il reddito disponibile delle famiglie sia tornato a livello pre-crisi”, l’Italia cresce pur sempre meno di tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale.

(*) articolo scritto per “Toscana Oggi”, settimanale cattolico regionale

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