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La tecnica e ‘il corpo della madre’: tra minaccia e potere

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Pubblicato:25-02-2019 17:10
Ultimo aggiornamento:25-02-2019 17:10
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donna incinta
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ROMA – La fertilità tra scienza, tecnica e filosofia. Ne parla Marianna Gensabella, professoressa di filosofia morale all’Università degli Studi di Messina e membro del Comitato DireDonne, intervistata dall’Agenzia di stampa Dire sul suo libro ‘Il corpo della madre’ (Rubbettino Editore, 2018).

Le nuove tecniche di fecondazione assistita hanno portato una rivoluzione nel concetto stesso di fertilità e anche nelle relazioni. “Sono sia una minaccia che un potere” secondo la professoressa.

“Dipende dal significato che le tecniche assumono nella vita delle donne, da loro e dal contesto socio-culturale in cui vivono. Certo le tecniche della riproduzione sono una minaccia se portano a una maggiore oggettivazione, alienazione del corpo delle donne. È la riduzione della donna a ‘macchina di riproduzione’, su cui la tecnica insiste, e in cui la soggettività della donna appare risucchiata, per una riduzione della consapevolezza dei rischi e delle possibilità di successo, o ancora per un’incapacità di sottrarsi alla ripetizione dei tentativi. Ciò che importa è che la soggettività della donna prevalga, sia come libertà che come capacità di relazione, sulle tecniche, che le usi e non ne sia usata”.


Non sembra essere la tecnica in quanto tale la minaccia quindi, secondo l’autrice, ma la sua applicazione. “E’ fondamentale- continua nella sua intervista alla Dire- che la donna sia capace di scelte consapevoli, che sia informata delle reali possibilità che le tecniche di riproduzione offrono al suo desiderio di maternità, ma anche dei rischi a cui va incontro e, al tempo stesso, che la donna mantenga quella particolare attenzione all’altro, ai suoi bisogni, che segna il femminile, un’attenzione che nel caso specifico si configura come attenzione a chi si vuole chiamare alla vita”.

“Se- aggiunge- queste due premesse sono soddisfatte le tecniche possono assumere il significato di un di più di ‘potere’ delle donne, intendendo però il potere nel senso letterale del termine, come possibilità di scelta e di azione, di realizzazione dei propri desideri, della propria soggettività. Certo non come potere che prevarica, in cui la realizzazione di sé passa attraverso la riduzione dell’altro a mero mezzo”.

“Insomma- prosegue- il figlio non deve mai essere considerato un mero oggetto di desiderio, ma sempre anche, come ogni essere umano, un fine in sé, come Kant insegna: un altro che chiamiamo alla vita, di cui ci assumiamo la responsabilità e al quale dobbiamo garantire condizioni di vita buone, le migliori possibili”.

Nel testo la filosofa propende per un principio che non definisce di prudenza, ma di “rispetto per principi etici fondamentali” come “il rispetto della soggettività della donna, ma anche il rispetto dell’altro chiamato alla vita, a partire dalla tutela dell’embrione, fino alla tutela del ‘migliore interesse’ del nato. Elementi che- chiarisce nella sua intervista alla Dire Marianna Gensabella- possono costituire un freno alle possibilità che le tecniche ci offrono. Del resto la bioetica parte proprio dall’esigenza di distinguere all’interno di ciò che la scienza e la tecnica ci consentono di fare, ciò che l’etica pensa che sia ‘bene per gli esseri umani. Naturalmente non è facile distinguere, anche perché non c’è un unico concetto di bene, un’unica etica, e anche la bioetica ha una pluralità di prospettive. A seconda dei modelli di bioetica possiamo ad esempio trovare risposte diverse. La prospettiva in cui mi colloco, che è quella di una bioetica della cura vicina per prospettiva antropologica alla bioetica personalista, impone sicuramente più freni della prospettiva liberale o di quella utilitaristica. Spesso sono freni sofferti, perché la bioetica della cura parte dalla domanda di come ci si possa prendere cura dei bisogni delle persone coinvolte, ma l’etica, a cui la bioetica rimanda, non è un sentiero facile da percorrere, deve sempre bilanciare interessi, diritti, principi”.

Un capitolo a parte quella della maternità surrogata a titolo solidaristico.

“A fronte del desiderio di genitorialità- spiega Gensabella- vi è il principio di dignità del corpo della donna, ma anche del bambino che nasce che non può essere oggetto né di vendita né di dono, per il semplice motivo che non è una ‘cosa’ che appartenga a qualcuno. Nel caso degli embrioni con corredi genetici sani, c’è il problema non da poco della discriminazione/eliminazione degli embrioni che sani non sono. Nel caso della ricerca sulle malattie genetiche, il problema è l’utilizzo dell’embrione umano come mero mezzo, destinato alla successiva eliminazione, per la sperimentazione: nessun problema se siamo convinti che non sia ancora da considerare come un essere umano, molti se pensiamo che non possa essere considerato come ‘una cosa’ dal momento che diventerà ‘qualcuno”.

Le tecniche di fecondazione sembrerebbero rendere la fertilità una materia di scelta e un fatto non solo di natura.

“Il rapporto tra tecnica e natura- sottolinea la docente nel corso dell’intervista- è in realtà il centro di tutta la questione, ed è estremamente complesso. Non vedo però un netto superamento della natura: ci vogliono pur sempre gameti maschili e femminili, il loro incontro, una gestazione in un corpo di donna. Certo c’è, come da sempre accade con il passaggio dalla mera natura alla cultura attraverso l’artificio, un tentativo di dominare la natura, di superare i limiti che impone, in questo caso l’impossibilità di avere un figlio per problemi di sterilità o di storia personale (pensiamo alla possibilità di utilizzazione di queste tecniche da parte di single o di coppie omosessuali). Vi è quindi sì una maggiore libertà, perché vi è un raggio più ampio di possibilità, ma proprio per questo una maggiore responsabilità. E proprio perché maggiormente coinvolte nel processo di procreazione che ‘per natura’ continua ad avvenire nel loro corpo, le donne credo che avvertano l’una e l’altra, la maggiore libertà e la maggiore responsabilità. Nel mio testo cerco di portare avanti l’idea che già nell’esperienza della maternità, nella relazione che si stabilisce tra madre e figlio nella gravidanza, la donna sperimenti un ‘di più’ di responsabilità e che si trovino lì le basi di quella che io chiamo ‘bioetica della maternità’: una bioetica che ha la maternità come paradigma e al tempo stesso come primo oggetto di riflessione”.

Scienza e tecnica sono sempre stati visti come appannaggio dei maschi e simbolo del patriarcato. “Un retaggio del passato pensare alla medicina, in genere alla scienza e alla tecnica come dominio dell’uomo. Pensiamo in particolare- sottolinea ancora Gensabella nell’intervista alla Dire- alla ginecologia come sapere/potere non solo del corpo delle donne ma sul corpo delle donne. Ma oggi molte donne, forse ancora non abbastanza, sono entrate nel mondo della scienza e della tecnica. La mia speranza è che vi entrino portandovi la particolare sensibilità femminile per i temi della cura, della relazione, della tutela della vita”.

E sul nuovo modo di vivere la gravidanza, in buona parte molto medicalizzata, fatta di diagnosi prenatali l’autrice sottolinea che “i progressi della ginecologia sono senz’altro di aiuto nel corso della gravidanza, possono salvare la vita del bambino e della madre, chiamano, nel caso delle diagnosi prenatali, a scelte difficili sulla qualità della vita di chi deve nascere. Non tolgono qualcosa al sentire la gravidanza, ma sicuramente trasformano questo sentire. Non so se in termini di serenità si possa parlare di una maggiore serenità, credo piuttosto di una maggiore consapevolezza, e quindi di una maggiore responsabilità di fronte ad informazioni e scelte prima impensabili, che invece ora intervengono durante a gravidanza e speso ne segnano il corso. Non credo sia un’ideologia maschile pensarlo, credo piuttosto sia una constatazione dei mutamenti che i progressi- dobbiamo chiamarli tali, perché portano avanti un di più di sapere e di potere di intervento- della ginecologia comportano nel vissuto della gravidanza”.

Infine una provocazione. “E’ meglio adottare bambini che embrioni, perché soffrono lo stato di abbandono. Ma se si è convinti che gli embrioni siano già esseri umani e se sono realmente in stato di abbandono, ossia se non sono stati prodotti per essere dati a coppie sterili, come purtroppo avviene in alcuni centri, perché non adottarli? Cosa si oppone sul versante dell’etica? A mio parere- conclude la filosofa-nulla”.

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