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Intervista esclusiva ad Antonio Rezza e Flavia Mastrella: trent’anni tra genio e talento

A Milano i nuovi spettacoli

Pubblicato:24-02-2017 13:59
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 10:56

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Antonio Rezza e Flavia MastrellaROMA  – Antonio Rezza e Flavia Mastrella non fanno più notizia. L’affermazione è squisitamente positiva, nel senso che l’inossidabile duo registra consensi, pienoni e crescente successo, anno dopo anno, stagione dopo stagione. Antonio e Flavia non smettono di girare l’Italia per stanare, sobillare, sferzare con la loro graffiante e geniale comicità la curiosità e i desideri del loro pubblico, al quale si dicono profondamente legati, disposti a non tradirlo mai. Li incontriamo a Milano, dove sono in scena al Teatro Elfo Puccini con gli spettacoli “Fratto X” (fino al 26 Febbraio) e “Anelante” (dal 27 Febbraio fino al 6 Marzo). Un caffè, una cornetto alla crema che Antonio divide in tre (“così ce la mangiamo tutti ”, ride divertito), una chiacchierata che sa di genio e sregolatezza, di visioni lontane, di suoni dirompenti, di teatro e vita concreta, irriverenti, politicamente scorretti e mai asserviti.

A Milano con due spettacoli. Due messaggi per il vostro pubblico, oppure…?

Flavia: “Uno spettacolo amplifica l’altro, sono consecutivi. Entrambi hanno come tematica la civiltà numerica, perché noi avevamo in mente di proporre una trilogia che oltre a queste due opere comprendesse anche “7-14-21-28”, che però si è esaurita, è stata sorpassata dagli eventi, perché siamo già immersi in un “mondo numerico”, ci è voluto davvero un attimo”.

Antonio: “Anche da un punto di vista produttivo non è che portiamo solo questi due spettacoli: noi portiamo tutto il repertorio in giro, cosa che sembra difficile ma non lo è, poiché questi spettacoli sono davvero nati con noi. Io ce li ho dentro, il testo è dentro, quindi basta rinfrescarlo con due ore ad alta velocità e io li riacquisisco; i movimenti con mezza giornata li riprendo e si parte. Questo dimostra che produttivamente quello che facciamo noi non lo fa nessuno, né nella qualità, né nell’espansione. Non mi sembra che ci sia in giro qualcuno che porti in scena tutto il repertorio; ciononostante, io non vedo titoli sui giornali che scrivono questo. Dovrebbero scrivere, invece della solita recensione, che quello che facciamo noi non lo fa nessuno. Noi dimostriamo che si può lavorare in un modo diverso, senza piegarsi al mercato istituzionale ottenendo comunque eccellenti risultati”.


Entriamo nel vivo della preparazione dei vostri spettacoli. Sulle locandine si legge “habitat di Flavia Mastrella”. Come si costruisce un “habitat” su Antonio?

Flavia: “L’habitat nasce da una riflessione iniziale e da una ricerca figurativa; ad esempio “Fratto X” nasce come conseguenza di una riflessione sul buio. Incuriosita dal buio, quello totale, ho fatto un lavoro sulla luce come reazione. Questo lavoro sulla luce mi ha condotta poi all’habitat di “Fratto X”, che si articola sviluppando la luce anche come materia”.

Antonio, riguardo ai personaggi, cosa ti ispira quando pensi a crearne uno?

Antonio: “Mah, io non lo penso mai un personaggio, è lui che viene a visitare me. Non ho mai pensato in vita mia di fare un personaggio triste piuttosto di uno allegro. Sarebbe piegarsi alle esigenze della mente; io mi lascio invece trasportare dal gioco, perdo il controllo di quello che sto facendo nello spazio che Flavia mi dona per un anno, un anno e mezzo. Io penso che chi, nella fase di gestazione dell’opera, riesce a perdere il controllo della stessa è di “serie A”, chi invece controlla l’opera è semplicemente un autore, e degli autori che cosa ce ne facciamo se poi non ci sono le opere? Bisogna farsi “scippare” il controllo dell’opera dall’opera stessa, e quindi perdere lucidamente il controllo”.

Flavia: “La mente ha bisogno di “perdersi”, altrimenti trova solo razionalità mentre l’arte è anche mettere in forma l’irrazionalità, altrimenti rischia di apparire come un’arte fredda. Noi, lavorando anche sulla gestualità, lavoriamo sulla spontaneità del gesto, sia nell’habitat da me creato, sia Antonio nella sua particolare disciplina. Insieme diventa una performance con due linguaggi”.

Come vi rapportate con il giudizio del pubblico?

Antonio: “Abbiamo due visioni diverse. Io penso come Gullit, che una volta disse che Maradona aveva un unico problema, quello di pretendere di essere amato da tutti. Anche io sono così; a me piace che tutti ci amino; chiaramente questo non può accadere ed io me la prendo un pò (ride divertito, ndr)”.

Flavia: “Il lavoro nasce sulle persone che vengono a vederci, quindi è un lavoro che è in contatto diretto col pubblico e cresce insieme agli osservatori, parola che noi preferiamo rispetto a quella di pubblico. Crescendo con loro, io vedo il pubblico come una cosa familiare, come gente che scambia con me un’idea. Io sono un po’ più spaventata della massa di fronte a me, rispetto ad Antonio che stando lì, nel buio della sala non può che prendere l’energia che la stessa emana”. Noi comunque lavoriamo per le persone, non per tendere a favori o ambire a chissà cosa”.

Che momento vive il teatro italiano? Qual è la vostra opinione?

Antonio: “Noi viviamo ai bordi, non ci è mai importato nulla del teatro istituzionale, non abbiamo mai preso una lira dallo Stato e mai la prenderemo; non capiamo come mai alcuni artisti si scoprano direttori artistici non occupandosi della direzione artistica; lo scontro è frontale. Senza snobismo, stimiamo davvero pochissimi personalità nel mondo del teatro. Apprezziamo gente come Danio Manfredini, Alessandro Bergonzoni che fa teatro “per sé” e non è “concessivo” col sistema istituzionale. Spesso, come noi, raccolgono meno di quanto dovrebbero, o dovremmo. Colpa del sistema statale che definisco repressivo, che preferisce esportare la pizza, il mandolino, Arlecchino, piuttosto che la nostra geniale ottusità”.

Flavia: “E soprattutto non capiamo perché non c’è “spazio” da far usare a chi comincia a lavorare. Non digeriamo lo sfruttamento che c’è della voglia di diventare attori di molti giovani. Chi ad esempio oggi ha 25-26 anni, è tediato dai corsi, divenuti nella maggior parte dei casi, veri e propri sistemi “strappasoldi”. Oramai ci sono persone che fanno solo corsi, a ripetizione. Purtroppo, però, il sistema creativo lo impari a 17-18 anni, non funziona che solo per il fatto che tu hai studiato, poi sali su un palcoscenico. Io raccomando sempre e comunque di non fare corsi, la cultura la impari da te”.

E con la televisione? È odio o amore?

Antonio: “Quando ci chiamano per fare quello che vogliamo proporre noi , andiamo senza problema, come fu con il programma “Troppolitani” (interviste “real” andate in onda su Rai3 tra il 1999 ed il 2000, condotte da Rezza in luoghi altamente frequentati come cimiteri, supermercati, stazioni, che partendo da domande assurde innescavano discussioni surreali con i passanti, ndr). Se accetta le nostre condizioni, la televisione è la benvenuta, è un mezzo utile per portare il nostro pensiero a chi non ci vedrebbe mai in teatro; altrimenti stanno bene dove stanno. A me fu anche offerto di partecipare a dei talent, in qualità di giudice, ma ho rinunciato, alla prospettiva ed ai molti soldi offerti. Possiamo dare delle certezze a chi ci ama: noi certe cose non le faremo mai”.

Flavia: “Io questo problema non ce l’ho, a me ai talent non mi chiamano proprio! (ride di gusto, ndr). Non mi considerano, ma va benissimo così. Una volta, però, ci volevano all’Isola dei Famosi, a tutti e due (ride sempre più divertita, ndr)…sarebbe stato un delirio! Dopo un’ora ci avrebbero cacciati!”.

Un consiglio che dareste ad un giovane attore?

Antonio: “Innanzitutto non è detto che tutti debbano fare teatro; se non sei capace, vai a fare un altro lavoro (ride sarcastico, ndr). Bisogna cercare dentro di sé l’ossessione e la capacità di essere forte e di creare un linguaggio nuovo perché non è vero che tutto è stato inventato. Aggiungo che il terreno è molto fertile, perché è in questa difficoltà, in questi periodi di crisi che si trova la dirompenza. L’Italia è un posto fantastico per creare, per farsi venire le idee; è un posto meno adatto per diffonderle”.

Flavia: “Devi studiare, per conto tuo, quello che tu vuoi portare avanti. Oltre allo studio, però, sarebbe raccomandabile lavorare come attore, per assicurarti una scioltezza, una padronanza che solo il mestiere, e nessun corso, ti da”.

Torniamo on the road. Che legame avete con le città dove vi fermate di più in tournée: Milano e Roma.

Flavia: “Rapporto fortissimo. Non ci scordiamo che nel 1995, Milano era la metropoli dell’arte, era “fortissima”, grande fermento. In vent’anni, sparita, purtroppo. Roma invece è “’n casino”.

Antonio: “Roma sta vivendo un periodo difficile, ma non per le vicende politiche dell’ultimo periodo; c’è un degrado assoluto, città meravigliosa abbandonata al suo destino. A New York, se vai in giro, pure se c’è Trump, tu sei bombardato dall’arte contemporanea, dalle possibilità di crescita e dalle differenza proprio fisica delle persone che incontri. Comunque, Milano e Roma, sono le nostre due città d’adozione, anche se nel cuore abbiamo tutte le città dove siamo stati e dove torniamo spesso”.

L’ultima domanda è sulla vostra prossima tappa in America (2-6 Marzo), a New York, dove parteciperete al Segal Film Festival, presentando il vostro film “Milano, Via Padova”. Siete però già stati a New York. Che sensazioni avete vissuto?

Antonio: “Io non ero mai stato a New York, è stata una grossa emozione. Non so a viverci, ma starci un mese così, come abbiamo fatto noi, è davvero fantastico. È una bolla!. Siamo stati accolti con favore, vorremmo tornarci una volta l’anno”.

Flavia: “Io ho fatto un’indagine più sull’arte contemporanea in generale rispetto al teatro in senso stretto. C’è veramente di tutto: trovi la banalità, trovi il bello. A me ha entusiasmato la sproporzione tra l’uomo e l’habitat, bellissimo! Non sembra, ma c’è spazio per tutti!”.

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