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Mogadiscio non è Parigi, una strage non fa notizia

di Umberto De Giovannangeli per www.ytali.com Il giorno in cui Parigi fu sconvolta dalla serie di

Pubblicato:23-10-2017 09:09
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:49

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di Umberto De Giovannangeli per www.ytali.com

Il giorno in cui Parigi fu sconvolta dalla serie di attacchi terroristici dell’Isis, la notte in cui civili inermi morirono falciati dai colpi di mitra al Bataclan, o seduti in un bistrot, lo stesso giorno in un luogo più lontano, la Nigeria, centinaia di studentesse venivano uccise, bruciate vive, perché cristiane dai miliziani di Boko Haram. Il giorno dopo, tutti i giornali produssero, ognuno, decine di pagine sul terrore che aveva insanguinato Parigi, mentre l’immane massacro in Nigeria veniva confinato, salvo rare eccezioni, in una breve.

Certo, per noi europei, Parigi è un vissuto che ci appartiene, in tanti quel giorno avranno pensato: in quel locale in cui si faceva musica, in quel bistrot, o allo stadio potevo esserci anch’io, e magari qualcuno in quel bistrot, in quello stadio, in quel locale c’era anche stato. La vicinanza emozionale è comprensibile, ma… Ma ciò su cui varrebbe forse la pena d’interrogarsi è da cosa nasce la nostra lontananza da quelle ragazze arse vive in Nigeria, e perché, per venire all’oggi, un immane attentato a Mogadiscio – la strage degli ambulanti rivendicata dagli al-Shabaab, i jihadisti più feroci d’Africa, affiliati ad al-Qaeda – che provoca 358 mori accertati, 56 dispersi (probabilmente morti), 228 feriti – non fa notizia, come se per i somali, per i nigeriani, come per gli afghani o i siriani, la morte violenta sia parte ineluttabile della loro quotidianità.


Questa lontananza di sentimenti pesa e tanto nella propaganda jihadista. Subito dopo i massacri di Parigi, l’allora presidente francese, François Hollande, decise che occorreva rispondere immediatamente e con durezza alla sfida mortale dello Stato islamico. Poche ore dopo, i cacciabombardieri francesi sganciarono su Raqqa, la “capitale” siriana dell’Is, tonnellate di bombe. Colui che prese questa decisione sapeva bene che i miliziani al soldo di Abu Bakr al-Baghdadi usavano gli edifici civili per nascondersi e facevano di donne e bambini i loro scudi umani.

Hollande lo sapeva, ma in quel momento quelle bombe “parlavano” all’opinione pubblica francese, impaurita, ferita, sgomenta per gli attacchi subiti. Quella reazione armata – uno “spot militare” la definì l’allora premier italiano, Matteo Renzi – provocò la morte di centinaia di civili, e subito, l’efficiente “dipartimento comunicazione” dell’Isis mandò in rete i video di genitori disperati che raccoglievano i corpi senza vita dei loro figli da sotto le macerie dei palazzi colpiti dai raid francesi. Il giorno in cui Parigi fu colpita, in tutta Europa si disse, scrisse, twittò: “Siamo parigini”. Nessuno, però, aggiunse “e anche nigeriani”, e ora, “siamo tutti somali”.

Quanto all’”essere siriani” c’è solo da arrossire di vergogna: per un popolo ridotto ad una moltitudine di profughi, per un dittatore che, sei anni e sette mesi fa, dichiarò guerra ad un popolo che, pacificamente, reclamava libertà e giustizia, le piazze occidentali non si sono riempite, forse perché non vi era l’”imperialismo yankee” o il “cattivo Israele” contro cui far fronte. Questa lontananza emotiva può avere tante spiegazioni ma un unico risultato: quel mondo lontano e al tempo stesso vicino in un mondo fatto a rete e globalizzato, percepisce la nostra lontananza come un segno di superiorità, come retaggio di una cultura neocoloniale per la quale quei morti contano poco o niente, e quando contano, quei popoli, è solo perché vengono percepiti come minaccia.

La minaccia dell’”invasione”. Sei riconosciuto se fai paura, come persona non conti, ma come migrante sei un numero, un più o un meno su cui si costruiscono campagne elettorali, e vince chi è più capace di alimentare la paura. Avviene in Austria, in tutta l’Europa dell’Est, finanche nella civile Scandinavia. La percezione dell’altro da sé è declinata solo al negativo, e al diffondersi, attraverso una narrazione impastata di falsità (ci rubano il lavoro, portano le malattie, dissestano le casse dello Stato…), di terribili equazioni quale islamico=potenziale terrorista.

Prima che una disfatta politica, per un pensiero di sinistra, è una bancarotta culturale, una “Waterloo” etica. È come se fosse venuto a mancare del tutto il diritto-dovere all’indignazione. E non basta nascondersi dietro le parole dell’unico leader globale, Papa Francesco, per mascherare l’assenza di coraggio politico che ha portato a fare della “paura” una categoria della politica. A farci commuovere è una foto, quella del piccolo Aylan, magari è una storia individuale particolarmente toccante, ma poi tutto torna nella “normalità”, e quei trecento civili massacrati a Mogadiscio non esistono.

Come non sono esistiti, nonostante l’encomiabile opera di documentazione di organizzazioni umanitarie come Oxfam, Amnesty International, Medici senza Frontiere, Save the Children, o di agenzie Onu come l’Unicef, i bambini, migliaia, le donne, migliaia, gli anziani, migliaia, per settimane intrappolati ad Aleppo, bersaglio dei bombardamenti aerei dell’aviazione di Bashar al-Assad, sostenuta dai russi, e dei cecchini dell’Isis.

I rapporti delle Ong raccontavano storie, documentavano crimini di guerra, aggiornavano numeri di una tragedia immane, eppure quei massacri non hanno scaldato i cuori in Europa, non hanno riempito le piazze, animato dibattiti, non hanno prodotto solidarietà e indignazione. E questa lontananza viene sfrutta da chi ne fa strumento di proselitismo, da chi la usa per rafforzare la propaganda armata.

“Noi moriamo ad Aleppo, tu morirai qui”: furono le parole utilizzate da un terrorista dell’Isis prima di aprire il fuoco, uccidendolo, contro l’ambasciatore russo in Turchia. Momenti drammatici, immortalati in un video che fece il giro del mondo. A noi, noi europei, noi occidentali, ciò che è rimasto impresso nella memoria è la freddezza del killer, sono gli ultimi atti di vita dell’ambasciatore russo. Ma per il mondo a cui i jihadisti si rivolgono, ciò che conta, più che il gesto, sono quelle parole: “Noi moriamo ad Aleppo…”, in cui quel “noi” non sono solo e tanto i miliziani di Daesh ma i bambini, le donne, i civili massacrati dai barili-bomba di Assad e dai bombardamenti delle varie coalizioni che hanno fatto di quella siriana una guerra per procura.

Il messaggio lanciato dall’Isis è chiaro: i nostri morti non contano, sono carne da macello. Propaganda spregevole si dirà, giustamente, tuttavia coglie un punto di amara verità: i morti, per noi europei, non sono tutti uguali.

Nei giorni dell’ultima guerra di Gaza, estate 2014, sui social, nella rete girarono video drammatici: palazzi distrutti, bambini uccisi, genitori disperati…Se ne parlò e scrisse per qualche giorno, poi i riflettori internazionali si spensero su Gaza e sulla tragedia di 1,800 milioni di persone, in maggioranza al di sotto dei 18 anni, che da oltre dieci anni vivono sotto embargo in una immensa e fatiscente prigione a cielo aperto isolata dal mondo. Il mondo della sofferenza non fa notizia. Soprattutto se è lontano da noi.

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