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Africa, Pesarini (NYU): “Italia accusa la Francia, nega le sue atrocità”

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Pubblicato:20-02-2019 18:14
Ultimo aggiornamento:20-02-2019 18:14

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ROMA – Molti dei migranti che partono da Eritrea, Etiopia e Somalia vedono nell’Italia una terra di passaggio, da cui proseguire il viaggio verso il Nord Europa. Pochi, insomma, quelli che decidono di restare. Ma pur smentendo una certa “retorica dell’invasione” propria ad alcuni discorsi politici, resta saldo il legame culturale con la Penisola, che affonda le sue radici nel passato coloniale dell’Italia. A ricordarlo, in un’intervista con l’agenzia ‘Dire’, è Angelica Pesarini, docente di sociologia alla New York University di Firenze che al tema del colonialismo italiano in Africa orientale ha dedicato diversi studi. 

Pesarini, che ama ricordare che “l’Italia non è un Paese cosi bianco come si vorrebbe credere”, ha aderito al Black History Month Florence 2019, un’iniziativa creata da Justin Thompson che dal 2016 prevede per il mese di febbraio una pluralità di eventi nel capoluogo toscano per “celebrare la diversità delle culture afro-discendenti nel contesto italiano”. 

Pesarini ragiona sul fatto che “in Italia il passato coloniale sia stato spesso negato in favore del mito ‘italiani brava gente'”. Per la docente la presenza degli italiani in quei luoghi – iniziata con la prima colonia in Eritrea, nel 1890, e durato circa 70 anni – è stata spesso edulcorata: “Quante volte sentiamo dire ‘gli italiani però hanno costruito strade e ospedali’?”. Questo perché, prosegue Pesarini, “l’Italia non ha avuto una storia coloniale durata secoli, come Francia o Inghilterra. Nonostante ciò, però, anche gli italiani hanno commesso atrocità e violenze, come dimostrato dalle ricerche di vari studiosi, in primis, Angelo del Boca”. Proprio ieri in Etiopia è stata celebrata la Giornata dei martiri, in memoria della strage compiuta ad Addis Abeba dalle truppe fasciste nel 1937. Sfuggito a un attentato, il generale e viceré dell’Africa orientale Rodolfo Graziani ordinò una rappresaglia in cui secondo i testimoni dell’epoca perirono 30mila persone. 


Pesarini cita un altro fenomeno, più silenzioso e meno noto: quello dei cosiddetti Italiani “meticci”: un’intera generazione di bambini nati da madri eritree, etiopiche o somale, e padri italiani che spesso non vollero riconoscerli. Un fatto doloroso per molti, che la studiosa ha approfondito dalla prospettiva della costruzione dell’identità, e che in parte, ha stimolato il primo flusso migratorio verso l’Italia, negli anni Settanta.

“Nel 1937, con l’approvazione delle leggi fasciste sulla razza, Mussolini bandisce i matrimoni misti” ricorda Pesarini. Nonostante ciò, proprio in quegli anni si registra un boom delle nascite poiché oltre 300mila soldati italiani vengono inviati in Africa, in vista dell’invasione dell’Etiopia nel 1935. “Le madri, spesso lasciate sole, mettevano i figli in collegi per bambini di origine italiana, gestiti da missionari cattolici e finanziati dal governo coloniale. In questi istituti, in cui era severamente vietato parlare la lingua locale (molti bambini venivano puniti per questo motivo), si studiavano la lingua, la storia e la cultura italiana. Socialmente quindi questi bambini erano spesso marginalizzati dalla comunità locale, in quanto non erano neri abbastanza. Allo stesso tempo però non erano bianchi abbastanza da poter essere riconosciuti come italiani”. 

Una generazione lasciata nel limbo, che tra la fine gli anni Sessanta e gli anni Settanta venne in Italia, ma “neanche qui trovarono una casa. L’Italia si era già dimenticata di loro”. Pesarini racconta come molte delle persone intervistate abbiano espresso un senso di amarezza, un “tradimento” quasi: “Molti erano sbigottiti del fatto che gli italiani non ricordassero più di aver avuto delle colonie e avessero rimosso i propri legami con l’Africa. Eppure loro, gli ‘italiani neri’, erano persone reali, frutto di quell’invasione e che per giunta parlavano un italiano perfetto. 

Un meccanismo simile di esclusione e mancato riconoscimento, basato sul colore, si verifica ancora oggi: i figli di immigrati non bianchi nati in Italia, o di coppie miste, che parlano perfettamente italiano e che sono a tutti gli effetti italiani, vengono spesso presi per stranieri. Questo perché si tende a credere che l’identità sia un fatto biologico basato sul colore della pelle, invece che sulla dimensione culturale”.

 Eppure il passato coloniale italiano, “è reale e rivive nei tanti simboli dell’eredità fascista tra le strade di Roma” prosegue Pesarini. “Pensiamo all’obelisco Mussolini”, nel piazzale antistante lo Stadio Olimpico. Anche Asmara, che la docente ha visitato varie volte, “ricorda Roma. C’è un Cinema Impero proprio come quello del quartiere Tor Pignattara, ci sono tanti bar e pizzerie ed è comune andare a prendere il caffè o il cappuccino, che viene chiamato proprio così. Molte persone capiscono l’italiano”. 

Di recente, nel dibattito sulle migrazioni il vicepremier Luigi Di Maio ha indicato il colonialismo francese come causa delle partenze. “Di quel discorso, ciò che più mi ha irritato è stata la completa rimozione del passato coloniale italiano” dice Pesarini. “Anche in occasione della pace tra Etiopia ed Eritrea sono intervenuti vari politici italiani, citando il ruolo storico dell’Italia in quelle aree. Ma la parola ‘colonialismo’ è stata omessa”. 

Negli ultimi mesi dai gilet gialli francesi è partita la proposta di rimuovere il franco cfa – eredità del passato francese in Africa occidentale – un argomento rilanciato anche da Di Maio. Cosa ne pensa? “Al di là della questione in se’, che mostra palesi interessi di matrice coloniale, è interessante notare come l’Europa, e in questo caso Di Maio, si sentano in diritto di parlare della sovranità monetaria di una parte di Africa in maniera totalmente strumentale e senza neanche provare a coinvolgere nel dibattito le nazioni africane interessate. Anche questo”, conclude la studiosa, “è retaggio di una mentalità profondamente coloniale”.

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