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Riforma della Pa: vera o soltanto maquillage?

di Barbara Varchetta,  (Pubblicista, esperta di Diritto e questioni internazionali) E così la riforma Madia, fiore all’occhiello del

Pubblicato:19-02-2016 14:18
Ultimo aggiornamento:16-12-2020 22:00

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di Barbara Varchetta (Pubblicista, esperta di Diritto e questioni internazionali)

E così la riforma Madia, fiore all’occhiello del governo Renzi, che prometteva una vera rivoluzione nella Pubblica Amministrazione, con tanto di costante richiamo ai criteri meritocratici, ai tagli agli sprechi, alla necessità di limitare lo strapotere della burocrazia (unico, intoccabile baluardo della nostra Italia), alla volontà di rendere smart l’attività amministrativa con annessa riduzione della mole di documenti e semplificazione delle procedure, si è rivelata  l’ennesimo tentativo di cambiare volto al vecchio e consolidato sistema attraverso un innocuo maquillage.

Per procedere al taglio del superfluo, lato sensu, si è pensato bene di colpire soltanto gli assenteisti, balzati agli onori della cronaca come i furbetti del cartellino, arrivando in molti casi a contemplare persino la misura del licenziamento. Provvedimento corretto ma non risolutivo che finisce per colpire gli elementi meno incisivi della macchina amministrativa nella logica dell’obsoleto leit motiv secondo il quale le punizioni esemplari fungono da deterrente…vuoti sensazionalismi.


Nulla quaestio, invece, su ciò che avrebbe dovuto rappresentare la punta di diamante della riforma: riduzione delle spese titaniche ed inutili che la P.A. si trova a dover affrontare senza che nessuno ne controlli la reale necessità nonché procedure di accesso alla P.A. attraverso dinamiche più rigide e controllate.

In tema di meritocrazia e di nomine dirigenziali, in realtà, si è davvero toccato il fondo: una delle tante circolari chiamate ad interpretare la legge (l’esigenza di un’esplicitazione ulteriore sui contenuti la dice lunga sulla sua asserita chiarezza e trasparenza) arriva a distinguere tra nomine ordinarie e politiche, escludendo queste ultime dagli obblighi previsti nel testo. Ma l’aberratio si raggiunge in materia di Sanità: in un comparto che costa allo Stato più di cento miliardi, che rappresenta il settore più delicato in ragione della sua sfera di competenza afferente la salute dei cittadini, che andrebbe gestito da professionalità esperte di gestione aziendale sanitaria (specializzazione ad hocche molte università italiane annoverano nella loro offerta formativa in considerazione del carattere performante delle skills richieste), che meriterebbe di essere assolutamente indipendente dalle scelte politiche proprio in funzione della terzietà che l’amministrazione sanitaria dovrebbe poter garantire, cosa si fa? Si decide di lasciare sostanzialmente tutto com’è: le Regioni continueranno ad effettuare le nomine dei manager di Asp ed aziende ospedaliere e soprattutto saranno chiamate a valutarne le performance. Come se fosse lecito consentire al controllore di essere parte attiva nella gestione del controllato… I requisiti richiesti per la nomina non saranno, poi, ascrivibili ad un ulteriore percorso di specializzazione post lauream, magari annuale come previsto dagli Atenei di tutt’Italia e come accade in altri Paesi europei per poter amministrare un settore che ha una portata equivalente a quella di una multinazionale quotata in borsa, con le annesse, immani criticità… no, nessuna specializzazione… I giovani quarantenni, oggi al governo, hanno disdegnato questo requisito ritenendo sufficiente un banale corso di formazione regionale: è come dire a coloro che hanno investito tutto nella costruzione di curricula accademici e professionali che questi hanno il valore della carta da parati nella casa della nonna.

La riforma avrebbe dovuto fornire l’occasione per cambiare le regole del gioco, specie in ambito sanitario, dove non esiste alcuna ragione perché la politica continui a governarne la gestione: sarebbe stato troppo azzardato ipotizzare l’accesso a tali ruoli attraverso un concorso pubblico nazionale che valutasse titoli e competenze dei candidati (prescindendo dalla discutibile prassi della nomina diretta) e non le tessere di partito di cui questi sono in possesso?

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