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Gerusalemme, raso al suolo il campo beduino sul ‘Monte del papa’

Giovedì scorso eravamo a visitare il campo di Jabal Al-Baba ("La montagna del papa"): ieri mattina alle 7 è stato raso al suolo

Pubblicato:17-10-2017 16:38
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:48

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ROMA – Il campo di Jabal Al-Baba, alle porte di Gerusalemme Est, non c’è più. I pochi prefabbricati in lamiera e i ricoveri per gli animali sono stati rasi al suolo dalle ruspe alle 7 di ieri mattina, dopo che le autorità israeliane, accompagnate dalle forze di sicurezza, hanno dato seguito a un ordine di sgombero a cui le quattro famiglie beduine avevano deciso di opporsi. Ora in 27 – inclusi 18 minori – hanno perso tutto, come denuncia l’ong israelo-palestinese B’tselem.

Ma a Jabal Al-Baba, che in arabo significa letteralmente “la montagna del Papa“, poiché il campo sorgeva su un promontorio della Chiesa cattolica, già da tempo i beduini sono bersaglio delle ordinanze di sgombero: “Prima del 1967 – data dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, ndr – vivevamo tranquilli, lavoravamo e avevamo di che vivere. Ora dipendiamo dagli aiuti umanitari”, spiegava solo giovedì scorso alla DIRE Atallah, il capo della comunità.

BIMBI COSTRETTI A CAMMINARE PER 3 KM PER RAGGIUNGERE L’ASILO

La zona circostanti Gerusalemme Est era un tempo popolata dai beduini, che con le politiche restrittive di Israele si sono fatti via via più stanziali. “Non possiamo entrare a Gerusalemme Est perché non ci danno i documenti; le donne sono tutte disoccupate, e sono pochi gli uomini che lavorano. I bambini non vanno a scuola – prosegue Atallah – l’ultimo asilo per 25 bambini sotto i cinque anni, realizzato dalle ong, è stato confiscato il primo giorno di scuola, a fine agosto: ora 20 bambini devono alzarsi alle 7 e fare 2-3 chilometri a piedi se vogliono raggiungere la struttura più vicina. Cinque di loro hanno rinunciato”.


UNO SGOMBERO ATTESO DA TEMPO

Lo sgombero di ieri era nell’aria da tempo, “negli ultimi anni le autorità hanno distrutto 48 case. Qui le comunità erano più di 40, ora ne restano 6″. La manovra rientra nel piano del governo di estendere gli insediamenti all’interno ma anche oltre la periferia di Gerusalemme Est, la parte della Città Santa teoricamente in mano ai palestinesi, trasferendo forzosamente le comunità beduine. Lontano dal campo, sul versante opposto rispetto a Gerusalemme, si scorgono i tetti rossi dei bei complessi residenziali di Ma’ale Adumim, il più grande insediamento israeliano in Territorio palestinese. “La cosa peggiore è che hanno costruito una barriera di separazione qui attorno. Non abbiamo accesso ai campi, che alla lunga sono stati confiscati, e per uscire abbiamo una sola porta”.

HIBA, 19 ANNI e DUE FIGLI: “SPERO NON CI MANDINO VIA”

La visita della settimana scorsa- prima dunque che tutto fosse distrutto- prosegue tra le baracche. Ad accoglierci, una fila di panni stesi a formare un arcobaleno. Raggiungiamo la baracca che Hiba, 19 anni e due figli, divide con altre cinque persone incluso il marito. Triste pensare che la carta da parati verde acqua e il cucinino ordinato con tanta cura siano andati distrutti. Nel corso del nostro incontro, Hiba – abito tradizionale nero con decorazioni dorate, e un velo rosso bruno avvolto a incorniciare il viso dolce – sfodera un sorriso radioso, tipico di chi non ha ancora 20 anni. Che problemi avete qui? “Nessuno – risponde la ragazza – stiamo bene”. La sua dignità è più forte delle circostanze.

“VOGLIAMO VIVERE CON LE NOSTRE FORZE”

“Davvero state bene?”, insiste l’interprete. “…Ho paura che ci manderanno via – ammette – penso sempre: dove andremo? Che ne sarà dei miei figli?“. Il maschietto di tre anni spia da dietro una porta. La baracca è composta da un ampio spazio comune coperto di cuscini e tappeti, poi un angolo cottura e due camere per la notte. La bambina di appena un anno gioca tranquilla. Solo i bambini sono ammessi alla piccola riunione con le giornaliste, mentre gli uomini restano fuori e niente foto per le donne. Cosa vorresti fare? “Vorrei imparare l’inglese per poterlo insegnare, e poi vorrei aprire un salone di bellezza”, risponde Hiba. Lasciamo la baracca con un senso di disagio. Gli operatori umanitari presenti ci assicurano che provvedono ai bisogni più immediati, container, cibo, vestiti, la scuola per i bambini nonostante le confische. “Ma noi vogliamo vivere con le nostre forze” dice Atallah. “Il mio sogno è restare qui, dove sono nato, senza più occupazione e senza militari che arrivano di notte e ti costringono ad andare via”. L’incontro, sulla “montagna del Papa”, è avvenuto prima dell’arrivo delle ruspe e dello sgombero di ieri mattina.

di Alessandra Fabbretti, giornalista

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