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Migranti torturati in Libia, video shock sui social. Facebook si difende: “Noi con i più deboli”

In una nota ottenuta dalla DIRE, il social network da due miliardi di utenti replica alle accuse

Pubblicato:16-06-2017 16:05
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:26

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ROMA – Circa 270 persone migranti – di nazionalità somala ed etiopica – sarebbero tenute in stato di prigionia nel sud della Libia, ostaggio delle bande criminali che li sottopongono a minacce e violenze per accelerare il pagamento di ingenti somme di denaro da parte delle famiglie d’origine.

A denunciare è l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni che mostra alcune foto che ritraggono queste persone in condizioni detentive penose: è con tali immagini i criminali ricattano le famiglie, diffondendole su Facebook o Whatsapp.

L’agenzia Onu ha ottenuto anche un video di circa mezz’ora di un giornalista somalo residente in Turchia, che è riuscito a mettersi in contatto con una di queste vittime che gli mostra le condizioni in cui sono tenuti i suoi compagni.


Al giornalista vengono raccontate anche varie testimonianze, in seguito alle quali non riesce a trattenere le lacrime: braccia e gambe rotte, denti strappati e minacce di morte sono solo alcune delle sofferenze patite da queste persone, per lo più giovani provenienti ai Paesi subsahariani che sognavano di raggiungere le coste libiche per tentare la traversata del Mediterraneo verso l’Europa.

A un tratto il filmato mostra un giovane sdraiato a terra, bloccato da un blocco di cemento: “Sono qui da 11 mesi – racconta con un filo di voce -. Mi hanno punito perché non sono in grado di pagare 8mila dollari. Mi hanno già rotto un dente e una mano. Poi tre giorni fa mi hanno messo addosso questo blocco di cemento: mi fa malissimo”.

L’Oim si sarebbe già attivato per soccorrere questi migranti, ma come spiega il suo portavoce, Leonard Doyle, “non è affatto semplice: la Libia è un Paese estremamente pericoloso. Questo campo di detenzione non è uno di quelli ufficiali, perciò il personale umanitario o istituzionale non ha accesso”.

“I criminali da tempo usano Whatsapp per criptare le loro conversazioni o le pagine Facebook – ha spiegato ancora -. Ma questa volta la faccenda è ancora più drammatica: è veramente un orrore”. Alle famiglie si cerca di estorcere tra gli 8mila e i 10mila dollari a testa. Alcuni migranti, conclude Doyle, sono tenuti prigionieri anche da oltre sei anni.

Facebook risponde sugli ostaggi in Libia: “Noi con i più deboli”

Facebook non è un posto per la diffusione di discorsi di odio, di razzismo o di appelli alla violenza. Valutiamo seriamente tutti i contenuti che ci vengono segnalati. Imparando dagli esperti, continuiamo a perfezionare il modo in cui implementiamo le nostre policy per far sì che la nostra community possa essere al sicuro, soprattutto per le persone che possono essere vulnerabili o sotto attacco”. Così in una nota ottenuta dalla DIRE, il social network da due miliardi di utenti replica ad accuse sulla vicenda dei migranti tenuti in ostaggio in Libia.

Carlotta Sami (Unhcr): “La Libia è l’inferno, l’Europa si muova”

“Questo episodio rivela una realtà che esiste ormai da anni in Libia: non c’è migrante che non sia passato da questo Paese e non lo abbia descritto come un inferno“. Come spiega all’agenzia DIRE Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa, la vicenda rivelata oggi dall’Oim è grave, ma non è una novità, e evidenzia una volta di più quanto sia necessario portare sviluppo a un Paese messo in ginocchio dalla guerra, e più in generale supportare i Paesi vicini affinché escano dai conflitti e la povertà che incoraggia i giovani a partire.

“Quante volte ci capita di ascoltare storie di giovani che hanno chiesto ai compagni di avvisare le famiglie che di lì a poco sarebbero morti, oppure di accogliere ragazze rimaste incinta contro la loro volontà“, prosegue la portavoce. Che ricorda l’impegno dell’Unhcr nel risolvere la situazione “estremamente preoccupante” almeno nei centri di detenzione ufficiali, dove negli ultimi 15 mesi l’Alto commisariato Onu è riuscito a far liberare oltre 800 persone.

“Noi offriamo il nostro aiuto alle autorità libiche e con loro collaboriamo per visitare i centri e portare almeno assistenza medica. Vorremmo riuscire ad andare in tutti quelli esistenti. Il nostro obiettivo è anche aprire presto centri comunitari e case sicure per le persone più vulnerabili, sopravvissute alla traversata del deserto, e in balia dei trafficanti”.

Ma l’obiettivo vero dell’Unhcr “è ribaltare il sistema libico di gestione degli arrivi, che al momento si fonda sulla detenzione di massa”. Anche monitorare i centri ufficiali non è semplice: “Solo a pochi di noi alla volta – o a membri della Croce rossa o altre organizzazioni internazionali – è consentito l’accesso, sempre accompagnati da funzionari libici. Vorremmo che questo cambiasse”.

Sami non nega che sul campo la situazione sia difficile: “La Libia è un Paese in guerra, ci sono oltre 300mila libici sfollati. Dobbiamo aiutarli, anche perché – a fronte di condizioni di povertà diffusa – il traffico di esseri umani è diventato la principale fonte di reddito. Va bene punire gli atti criminali, ma bisogna offrire anche aiuti concreti alle comunità”.

La prossima settimana a Bruxelles si terrà un vertice proprio sul tema dei migranti.

Cosa vi attendete? “Che tutti i Paesi europei seguano l’esempio di quelli che, come l’Italia o la Germania, stanno portando avanti una politica di gestione dei flussi ampia, fondata sullo sviluppo dei Paesi africani” risponde Sami. “Se è tutta l’Europa a farlo allora si può ottenere un reale impatto sulle cause del fenomeno, come le guerre, i conflitti, la povertà o le conseguenze stesse delle migrazioni interne: pensiamo all’Uganda che sta ospitando quasi un milioni di profughi dai Paesi vicini”.

Per Sami è un’ottima notizia anche la conferenza del 6 luglio a Roma, indetta dall’Italia sul tema, e a cui sono stati invitati i Paesi africani coinvolti: “È chiaro ormai che le persone non vanno aiutate solo quando si trovano ormai ad attraversare il Mediterraneo, ma è a monte. E a volte è proprio nei campi detentivi in Libia, dove sono in trappola, e anche volendo non possono più tornare indietro”.

La difficoltà enorme per Sami al momento è data dal fatto che “non tutti i Paesi dell’Unione sono in grado di assumersi le responsabilità politiche che si sono assunti. Impegni che, quindi, ricadono interamente sulle spalle di pochi. Per noi questo è inaccettabile, così come il fatto che si dica che tale sfida è persa: sarebbe una perdita enorme dal punto di vista della storia”.

di Alessandra Fabbretti, giornalista

 

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