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Siria, Nasr (attivista): “Sento che mio marito è vivo. Le forze anti Isis ci aiutino sugli scomparsi”

Intervista alla moglie di un desaparecido siriano, che lotta insieme a Family for Freedom (Fff) per avere risposte sulla sorte degli ex detenuti degli jihadisti che sono spariti nel nulla

Pubblicato:16-04-2019 14:13
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 14:22

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ROMA – “Aspetto di avere notizie di mio marito Fouad dal giugno 2012, quando venne arrestato dall’Isis a Deir Ezzor. Da allora io e i miei tre figli viviamo nell’attesa, tra voci e notizie non confermate. Non ci sono parole per descrivere quanto sia dura”. A parlare con la ‘Dire’ è Ensaf Nasr, una psicologa siriana che dal 2016 risiede in Turchia coi tre figli Guevara, Amarje e Taim, di 20, 19 e 13 anni.

Residenti a Damasco, Ensaf e suo marito Fouad Ahmed Al-Mohamed partecipano da subito alle proteste pacifiche iniziate nel 2011 contro il governo. Poi, quando parte l’offensiva dell’esercito contro i movimenti rivoluzionari, Fouad decide di trasferirsi a Deir Ezzor dove, dai sotteranei di un ospedale, diffonde notizie sul web circa le vittime del conflitto tra il movimento rivoluzionario e le forze di Damasco. La città però nel 2014 cade nelle mani del gruppo Stato islamico: cominciano le retate non solo dei rivoluzionari, ma anche degli attivisti e per Ensaf è un calvario: “Di mio marito non sappiamo nulla. Pare sia stato arrestato perché condannato dal tribunale religioso di blasfemia, per aver dato a uno dei nostri figli un nome non musulmano”. Qualche anno dopo l’arresto del marito, la donna decide di lasciare la Siria: “Era troppo pericoloso per noi restare a Damasco“. Ma anche dall’estero non interrompe le ricerche: “Contatto tutti quelli che posso: attivisti, ex detenuti, residenti di Deir Ezzor, in cerca di dettagli sulla sorte toccata a mio marito”.

 



Nel dicembre scorso Ensaf Nasr si è unita a Family for Freedom (Fff), un’associazione che dà voce alle famiglie dei “desaparecidos siriani“, secondo stime non ufficiali circa 20mila. Di recente, l’Fff ha aderito all’appello lanciato da un’organizzazione sorella, The Syria Campaign, che a oltre tre settimane dalla liberazione di Baghouz dallo Stato islamico chiede alle forze arabo-curde delle Sdf e delle Ypg e alla coalizione internazionale a guida americana che le ha sostenute di fornire informazioni alle famiglie. Il problema, denuncia Ensaf, è che “circolano voci su possibili scambi di prigionieri tra le forze in campo: i miliziani dell’Isis potrebbero averli scambiati coi propri uomini detenuti dal regime di Bashar Al-Asad, ma anche le Forze arabo-curde sostenute dagli Usa potrebbero aver fatto altrettanto”.

Solo a Raqqa – ex capitale dell’Isis in Siria – è stato individuato un centro di detenzione dell’Isis “con oltre mille prigionieri. Ma quando chiediamo alle Sdf di darci informazioni, restano vaghi”. Un problema che si è ripetuto anche all’indomani della liberazione di Baghouz. “Non sappiamo cosa sia successo alle persone tenute prigioniere dai jihadisti” denuncia Ensaf. “Le Sdf-Ypg si rifiutano di dare informazioni”.

The Syria Campaign sollecita anche “corrette procedure per riesumare i cadaveri dalle fosse comuni” e per favorirne l’identificazione. “Nonostante gli Stati Uniti abbiano speso circa 90 milioni di dollari per stabilizzare il nord-est della Siria – si legge in una nota – poco è stato fatto per rintracciare gli scomparsi”. L’organizzazione ricorda che ancora a Raqqa a febbraio è stata trovata una fossa comune con oltre 3.500 corpi, molti dei quali appartenenti presumibilmente a civili scomparsi. Tuttavia “Nessuna squadra di esperti forensi è stata inviata” sul posto – denuncia The Syria Campaign – e ciò significa che sono all’opera persone non specializzate, che potrebbero perdere o distruggere informazioni cruciali”.

Ensaf continua: “Da quando The Syria Campaign ha lanciato questa iniziativa metto a disposizione la mia storia. Credo in questa iniziativa: è il primo passo per esercitare pressione sulla Coalizione a guida americana e sulle Sdf-Ypg affinché diano le risposte che attendiamo da anni. Io sento che mio marito è vivo. Credo che sia detenuto, in mano alle Sdf, che pare abbia arrestato chi era nelle carceri dell’Isis. Oppure, è stato consegnato al regime. L’unico modo per scoprirlo è che le Sdf e la coalizione a guida americana collaborino”.

La testimonianza della moglie di Fouad getta nuove ombre anche su possibili legami tra il governo siriano e il califfato: “Quando i jihadisti hanno iniziato le retate a Deir Ezzor, nel 2014, avevano liste coi nomi delle persone da catturare. Sapevano tutto su di loro. Sono convinta che fossero in coordinamento con i servizi di intelligence del regime. Anche perché se prima i servizi segreti mi interrogavano di continuo per avere informazioni su mio marito – al punto che Fouad mi suggerì di dire che avevamo divorziato – dopo il suo arresto, smisero immediatamente di contattarmi”. Il governo siriano, questa la tesi, avrebbe “commissionato all’Isis l’arresto degli attivisti che fino a quel momento erano sfuggiti alla cattura”.

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