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Dopo il ciclone Trump, Cop22 verso “Marrakech call” e fronte unito

Albrizio: "L'elezione di Trump ha portato sinora al compattamento di tutte le altre parti, che hanno mandato messaggi chiari agli Usa"

Pubblicato:15-11-2016 10:31
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 09:18

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climaROMA – Alla Cop22 in corso a Marrakech c’è un enorme convitato di pietra (anzi, di carbone), ed è il presidente eletto Usa Donald Trump, che non crede al mutamento climatico e si teme possa chiamarsi fuori dall’Accordo di Parigi. Ma questo ciclone negazionista che minaccia le future azioni salva-clima potrebbe portare a un ricompattamento del fronte dei volenterosi salva-clima e a un documento che chiami all’azione, quella che per ora prende il nome di ‘Marrakech call’. Però, per mantenere il fronte unito, si dovrà trovare un accordo sui fondi per la mitigazione (la riduzione delle emissioni) e l’adattamento (le misure per resistere alle conseguenze dei mutamenti) tra Paesi ricchi che preferiscono il primo e Paesi poveri, spesso i più esposti come le piccole isole, che invece vogliono letteralmente sopravvivere alla febbre del Pianeta.

Questo il punto dei lavori ad oggi. “L’elezione di Trump, e il suo impatto sui negoziati in corso, ha portato sinora, dopo una prima fase di comprensibile incertezza, al compattamento di tutte le altre parti, che hanno mandato messaggi chiari agli Usa- spiega Mauro Albrizio, direttore dell’Ufficio Europeo di Legambiente, alla DIRE– a partire dalla Cina che ha detto che comunque lo spirito di Parigi e la revisione di marzo sono irreversibili, seguita dall’Europa, dalla Coalizione degli ambiziosi lanciata dalle Isole Marshall e dai paesi caraibici e delle e comunità a rischio, paesi in via di sviluppo, poi Ue e tutti quelli che volevano ‘spingere’, insomma”.

“Ma, soprattutto, c’è stato anche il sostegno di paesi tradizionalmente poco avanzati sulle politiche climatiche come l’Australia, il Giappone e a sorpresa l’Arabia saudita, oltre al Marocco, che ha la presidenza di turno e sta preparando e proponendo una dichiarazione politica sul prosieguo dell’impegno chiamata ‘Marrakech call‘- prosegue Mauro Albrizio, direttore dell’Ufficio Europeo di Legambiente, parlando con la DIRE- Una dichiarazione che ha il senso, senza nominare Trump, di affermare che l’impegno in difesa del clima prosegue, una dichiarazione politica che dice che si prosegue tutti insieme e che la marcia è irreversibile”. Però, sottolineano fonti presenti a Marrakech, ci sono altri due elementi da tenere in considerazione.


Il primo: nei corridoi inizia a girare, con sempre più insistenza, la voce circa la possibilità che prima della fine della conferenza Trump possa rilasciare una dichiarazione con la quale annuncia il disimpegno Usa. Il Marrakech call è quindi una risposta preventiva a questa ipotesi, segnalano le fonti. Su questo fioriscono tutta una serie di analisi tecniche sul come e quando sia possibile disimpegnarsi dall’accordo Parigi o dalla Convenzione quadro ratificata dagli Usa con Bush padre, “ma a prescindere da tutto ciò il dato politico è che queste sono ipotesi tutte da verificare ma che di fatto sono una motivazione per la Marrakech call”, valutano le fonti.

Però, proseguono le fonti interpellate dalla DIRE alla Cop22 di Marrakech, un dato è certo e riguarda una questione che sarà sempre più centrale nelle prossime ore. Se è un punto sempre più negativo che l’amministrazione Trump si disimpegni dall’accordo, ci sono pochi dubbi sul fatto che la stessa amministrazione taglierà gli aiuti da parte americana ai paesi in via di sviluppo per le loro azioni di mitigazione e soprattutto adattamento. Su questo aspetto, quindi, “diventa centrale la road map che prevede di arrivare a 100 miliardi l’anno al 2020 per gli aiuti a paesi piu poveri per adattamento e mitigazione”, precisano le fonti. “Se si trova la quadra su questo, allora con la Marrakech call il fronte politico è più compatto e la strada e in discesa- valutano le fonti- ma se non si trova l’accordo sui soldi è un problema, perché il fronte unitario si rompe”.

L’oggetto contendere riguarda il fatto che “se sui 100 miliardi l’anno i soldi si trovano, lo scontro tra ‘poveri’ e ‘ricchi’ è sulla loro ripartizione tra azioni di mitigazione e adattamento”. Finora i Paesi donatori, ricchi, hanno privilegiato le azioni di mitigazione, perché questo consente loro di ridurre le proprie emissioni verso l’obiettivo di Parigi a mantenere l’aumento di temperatura entro 2 gradi puntando a 1,5, ridurle perché con gli impegni attuali si va verso un aumento della temperatura tra 2,8 e 3 gradi. Quindi, “i Paesi ricchi danno volentieri soldi per ridurre le emissioni e centrare i propri obiettivi, mentre l’interesse dei Paesi poveri è sopravvivere con le misure di adattamento“, avvertono le fonti. Oggi grosso modo la ripartizione dei fondi è circa il 20% per l’adattamento e l’80% per la mitigazione. I Paesi poveri vogliono invece un riequilibrio, aumentando le risorse attuali per l’adattamento e arrivando a un 50-50 o 40-60, e questa è la proposta dell’Unione africana. “Da cio’- concludono le fonti- deriverà a cascata tutto il resto”.

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