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Da Lungro a Montecitorio: i 90 anni di Pasquale Laurito, decano della stampa parlamentare

A tratti irriverente, sempre, spiega, dalla parte dei piu' deboli

Pubblicato:15-05-2017 10:20
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:13

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ROMA – Duemila gradini. I 200 minatori della salina di Lungro li percorrevano ogni giorno per raggiungere i piani di lavoro, fino ai 250 metri di profondita’: un’ora per andare giu’ e un’altra per risalire. La miniera era aperta da millenni eppure sempre minacciata di chiusura: vuoi per la concorrenza del sale di mare, vuoi per i governi che per Lungro avevano scelto la strategia della ‘morte lenta’. Che arrivo’ dopo decenni di lotte operaie e pochi investimenti sugli impianti. Nel 1976.

‘Ero a Roma ormai da 30 anni. Ma ricordo quella data, il 3 novembre, con lo strazio nel cuore. Perche’ io ho cominciato cosi’, come militante comunista accanto ai salinari della Societa’ operaia di Lungro. A distanza di tanti anni, posso dire che e’ stata per me la scuola di una vita’.

Pasquale Laurito, decano dei giornalisti parlamentari, inventore della Velina Rossa, compie oggi novant’anni, 70 dei quali trascorsi a raccontare la politica italiana. Una cronaca mai edulcorata.


A tratti irriverente, sempre, spiega, dalla parte dei piu’ deboli. Lungro, a 60 chilometri da Cosenza, capitale religiosa degli italo-albanesi continentali, sede dell’Eparchia bizantina. E terra di minatori.

‘Mio padre, Giosafat, era medico, socialista nenniano, come mio fratello. Io- racconta Laurito alla DIRE- ero il solo comunista in famiglia. Ci tengo a precisare: cattocomunista. Battezzato per volonta’ di mia madre, Emma De Marchis, e da sempre cattolico osservante, visto che il cristianesimo e la sinistra vanno insieme. Quella della Dc e’ appropriazione indebita…’.

IL PCI

La tessera del Pci arriva giovanissimo.

‘A 17 anni e 8 mesi, nel 1945. Subito dopo la guerra c’era bisogno di giovani militanti. La sezione di Lungro, e quelle degli altri paesi vicini, avevano una gerarchia rigida: i capi della miniera in cima, noi studenti a occuparci dell’organizzazione. Tenevamo anche un corso per insegnare a leggere e a scrivere. Io poi dovevo comporre ed affiggere un giornale murale che si chiamava ‘La riscossa’. Si parlava di fatti locali, spesso si entrava in polemica con la Dc e con il vescovo, eravamo nel pieno della campagna per il referendum istituzionale. Ricordo benissimo i sentimenti contrastanti di quei giorni. La delusione perche’ alle elezioni per la Costituente il Pci era arrivato terzo, dopo Dc e Psi. Ma anche la soddisfazione visto che Lungro, insieme a San Giovanni in Fiore, fu uno dei pochi paesi della Calabria dove la Repubblica aveva vinto con percentuali ben oltre il 60 per cento. Ricevemmo anche un telegramma di congratulazioni da Mario Alicata, che era il piu’ alto dirigente del Pci calabrese’.

L’ARRIVO A ROMA

La ‘scuola’ di Togliatti

Dalla campagna elettorale per la Costituente alla Costituente in presa diretta. Da Lungro a Roma. ‘Era il 1947. Grazie a un vecchio senatore calabrese, Enrico Mole’, che aveva dato vita a un piccolo giornale che si chiamava ‘Democrazia del lavoro’ e usciva quasi tutti i giorni, ebbi la fortuna di trovarmi a seguire i lavori della Costituente. Palmiro Togliatti, Nenni, Saragat, Benedetto Croce: erano nomi che avevo seguito alla radio, che a stento conoscevo per fotografia. Si puo’ immaginare l’emozione. Trovarsi a 20 anni a fare il resoconto dei lavori parlamentari. Mi soccorse per fortuna Togliatti, in questo caso maestro di giornalismo. Mole’, che era un azionista di sinistra, mi chiese se in quanto comunista, fossi anche un comunista moderno nello scrivere. Io rimasi imbarazzato. Lui mi disse: ‘soggetto, predicato, complemento oggetto, come dice Togliatti’. A quei tempi c’era un modo di scrivere che iniziava, per dirla con Togliatti, dalle lacrime e poi si arrivava al fatto. Lui diceva: prima il fatto che provoca le lacrime, poi le lacrime. Togliatti aveva una venerazione per la cronaca. Era quello il modello di giornalismo che introdusse all’Unita’, con gente come Ingrao, Pavolini, Reichlin. Gente moderna che aveva studiato’.

La Roma del primo dopoguerra.

Non deve essere stato facile per un ragazzo di vent’anni. ‘Feci il primo pezzo, Mole’ rimase contento e mi dava 95 lire al mese’, racconta Pasquale Laurito. ‘Il primo stipendio, anche se non bastava, visto che ero anche all’universita’. Da casa per fortuna mi aiutava mio padre. Stavo alla pensione Natalini, a piazza Esquilino 29. Mangiavo tutti i giorni pasta e fagioli. Mi arrangiavo, insomma. I miei compagni di studi vestivano i primi montgomery. Io avevo il cappotto fatto da mia madre con la coperta americana. Si comprava la coperta americana, e poi la si tingeva. Solo che questo colore non veniva uniforme. Ricordo quando mi specchiai nelle vetrine che c’erano accanto al teatro Eliseo, sulla strada per la Camera. Era un marrone che in alcuni punti dava sul nero. Provai un po’ di vergogna, ma anche orgoglio‘.

La prima volta a Montecitorio

La prima impressione a Montecitorio. ‘Lo scontro politico era effettivo, era una cosa concreta, tra la sinistra, il centro cattolico e i liberali. C’erano tutti i signori della politica con le loro idee. Ricordo lo scontro sull’articolo 7. Concetto Marchesi contro Togliatti, che era ministro della giustizia. Chi parlava latino da una parte, chi replicava in greco. E un filosofo come Benedetto Croce, pur contrario al ‘giogo pretesco’, che si alza per fare un elogio a Togliatti. C’era la contesa, ma c’era anche una reciproca stima. Persino nel movimento dell’Uomo qualunque, portatore di un ‘qualunquismo’ che non ha nulla a che fare con quello di oggi. In quegli anni in cui le istituzioni repubblicane erano nella fase nascente, ho imparato il rispetto, la fiducia che si deve alle istituzioni. Le due Camere, la presidenza della Repubblica, la Consulta sono sacre. Possono essere criticate, ma il giornalista non deve mai far venire meno un sentimento di lealta’. Non si possono creare conflitti ad arte, o inventarli. Nei miei 90 anni, pur tra mille polemiche, mi sono sempre attenuto a questo principio’.

Il primo pezzo

Il primo articolo per Paese sera e’ del 1953. ‘Era il giornale nuovo, ideato da Fausto Coen. Il primo pezzo era dedicato al salotto di Maria Bellonci, gli ‘amici della domenica’. Entrai in quell’ambiente di intellettuali e artisti, c’erano i piu’ grandi scrittori, e lo descrissi con ironia. Maria Bellonci cerco’ anche di adoperarsi per il rilancio della musica e soprattutto dell’opera. Ci faceva avere abbonamenti alle ‘seconde’. Le prime, diceva, le lasciamo ai generali. E ancora oggi all’Opera di Roma, sulla sinistra, alla prima balconata c’e’ il ‘palco della Bellonci”.

Lo scoop: ‘Nasce la tv e nessuno lo sa’

In quegli anni arriva anche uno scoop che ha fatto storia. ‘Tornavo da una passeggiata notturna verso monte Mario, perche’ a quei tempi al giornale si andava alle 5 e 30 di mattina. A un certo punto ho visto degli operai che lavoravano a delle istallazioni. Chiesi e mi dissero che in quel punto sarebbero sorte le torri della tv. In quel periodo c’era un grande dibattito, con La Malfa, ministro dell’economia, che sosteneva che non potevamo permetterci la televisione, avevamo 50 miliardi di deficit. Evidentemente la Dc aveva mandato avanti la cosa senza informarlo. Andai da Coen e riferi’. C’era un motociclista, Sallusti si chiamava, che era pure fotografo. Andai con lui a fare le foto di nascosto e a prendere ulteriori dettagli.

‘Lauri’- mi disse Coen- una paginetta, che dobbiamo uscire subito’. Il pezzo fu pubblicato a nove colonne: ‘Nasce la tv e nessuno lo sa’. Aprirono la seduta della Camera con quella notizia. La Malfa imbufalito. Togliatti, col giornale in mano, a chiedere ragguagli al governo. Ci divertivamo. Ricordo che partecipai anche a un paio di film (‘Il bell’Antonio’ e ‘Un giorno in Pretura’), in ruoli minori. Un divertissement’.

Gli anni ’60

Da Paese Sera a Il Globo. Dal quotidiano del Pci a quello di Confindustria. ‘Verso la fine del 1959 Italo Zingarelli mi propose di passare con lui. Fu un periodo di turbamento interiore. Mi si chiedeva di seguire le riunioni economiche, a cominciare dalla legge di bilancio. Firmai un contratto da caposervizio, lo stipendio era di 250mila lire. Ricordo che in quel periodo mio padre era malato. Andai a trovarlo e il primo stipendio lo diedi di nascosto a mia sorella. Quando mio padre lo seppe, disse a mia sorella: ‘Se danno tanti soldi a Pasquale, vuol dire che siamo alla fine’‘, racconta Pasquale Laurito, decano del giornalismo parlamentare.

Con gli anni ’60 arriva il centrosinistra al governo.

‘Personalmente ritengo che per il giornalismo non fu un periodo felice. Fanfani e’ stato un grande presidente. Ma era fazioso. All’epoca non c’era l’associazione Stampa parlamentare che ti tutelava. Avevano costituito una rete, c’era una specie di sorveglianza giornalistica. Non c’era solo Vittorio Orefice con la sua Velina bianca. Chi non seguiva la sua fazione, persino chi seguiva i dorotei, era emarginato’.

‘Riferisco solo un episodio. Eravamo nel 1962 e io passavo tutte le sere nel cortile di palazzo Chigi, che era aperto. Vidi arrivare l’ambasciatore americano. Probabilmente mi scambio’ per un messo, comunque quando gli chiesi cosa ci faceva li’, mi disse che doveva portare un messaggio del presidente Kennedy sulla crisi che si stava determinando con Cuba. Il Globo aveva gia’ chiuso l’edizione, riuscimmo a mettere solo la notizia in neretto in prima. Togliatti colse la palla al balzo per incalzare il governo. Orefice cercava di tamponare la notizia. Io venni convocato dal capo ufficio stampa di palazzo Chigi che mi minaccio’ di non farmi piu’ entrare nella sede del governo. Gli risposi di mettermelo per iscritto, lo avrei pubblicato. Oltre a quel clima opprimente, in sala stampa c’era una specie di invasione di veline. I giornalisti scrivevano un pezzo per il giornale e una velina per arrotondare’.

Gli anni ’70 e il lavoro per l’Ansa

Con gli anni ’70 l’assunzione all’Ansa. ‘Curiosamente accadde dopo una conversazione con Moro. Mi chiese se mi ero accasato stabilmente in una redazione. Gli dissi che piu’ di tutto volevo fare il giornalista, che non mi interessavano posti di comodo. Dopo due giorni venni chiamato dall’Ansa. Mi assunse il direttore Sergio Lepri, con il quale c’e’ stato un rapporto di odio e amore, potremmo dire. Ricordo che quando scrissi che la segreteria del Psi chiedeva le dimissioni del capogruppo Labriola, perche’ il suo nome figurava negli elenchi della P2, i socialisti chiesero il mio licenziamento. E lo fecero adducendo il fatto che io facevo la Velina rossa. Craxi mi accusava di essere un agit prop. Lepri, con appena qualche riluttanza, mi difese’.

La nascita di Velina Rossa

La Velina rossa nasce nel 1977.

‘Si’, da un’idea di Tonino Tato’, il piu’ stretto collaboratore di Enrico Berlinguer. Io andavo tutti i giorni, da mattina a sera a Botteghe Oscure. Ero ben voluto da Tato’, che mi introdusse al secondo piano, dove era molto difficile che i giornalisti arrivassero. E due, tre volte al mese ero presente ai colloqui con Berlinguer. La Velina veniva distribuita solo alla Camera, si mandava nelle buste, attraverso il personale che recapitava anche i giornali. Eravamo in aperta competizione con la Velina bianca di Orefice, che peraltro cercava di carpire le notizie, perche’ a lui dal fronte comunista non arrivava niente. Faceva di tutto per conoscere i possibili attacchi alla Dc’.

‘Furono anni brutti, caratterizzati anche dagli spietati attacchi dei miglioristi a Berlinguer. Tra le prime notizie della Velina ci furono anche le dimissioni di Leone, nel 1978. Mi avvertirono che c’era stata una segreteria del Pci, che chiedeva lasciasse il Quirinale. L’Ansa all’epoca doveva affidarsi all’ufficialita’. Cosi’ diedi la notizia attraverso la Velina. Seguirono giornate difficili. Tra i personaggi che ebbi modo di conoscere, c’era anche un giovanissimo Nichi Vendola. Ma a parte Berlinguer, fu Federico Caffe’ l’uomo con cui strinsi un rapporto di particolare confidenza. Contrariamente a quanto si riteneva allora, era un assiduo frequentatore di Botteghe Oscure, veniva da Berlinguer dalle 13 in poi, quando non c’era piu’ nessuno. Ed entrava dal garage. Fu un grande collaboratore del segretario. Caffe’ mi chiedeva di non parlare a nessuno delle sue visite. Non l’ho mai tradito’.

Il caso Moro

Il rapimento Moro segno’ un punto di svolta. Dura la vita anche per i cronisti che ‘sapevano afferrare le rondini al volo’ nel Transatlantico di Montecitorio, come sono stati definiti i cronisti parlamentati. ‘Dominava una gran confusione. Quasi ogni notizia era falsa- racconta Pasquale Laurito, decano della stampa parlamentare-. Uno che mi dette aiuto era Francesco D’Amato, che aveva fatto un’agenzia vicino a Moro. Tutti sapevano che io ero amico dei morotei, e noi e loro passammo brutti momenti. Ho sempre sentito la vicinanza, poi, dell’amico Frasca Polara. Fortuna volle che al Quirinale, in quegli anni, ci fosse Sandro Pertini, il quale rimase fermo nella difesa dello Stato, nonostante le pressioni da una parte e dall’altra. Craxi in particolare cercava solo di creare disordine. Non ho mai creduto che se lo Stato avesse trattato con le Br, Moro si sarebbe salvato’.

‘Andai in pensione nel 1985 e da allora la Velina rossa ha assunto un carattere per cosi’ dire ‘ufficiale’, anche se e’ una contraddizione in termini. In questa fase Orefice cerco’ addirittura di collaborare con me. Ma rifiutai quel compromesso, perche’ lo ritenevo sbagliato. Siamo stati amici fino all’ultimo, ma non in politica’.

Gli anni più recenti

In anni recenti la Velina ha spesso fustigato gli uomini di governo. Matteo Renzi da ultimo, definito ironicamente, il ‘taverniere fiorentino’. ‘Da Craxi a Berlusconi a Renzi, abbiamo assistito al tentativo di indebolire le basi della Repubblica. L’idea sottesa a tutti questi tentativi e’ sempre stata la stessa: accentrare il potere, nell’illusione che il modello aziendale delle decisioni di vertice sia piu’ efficace della democrazia rappresentativa e partecipata. Ma il tempo si e’ incaricato di dimostrare che e’ una pia illusione’.

‘Il modello maggioritario non migliora il Paese. E l’Italia di oggi e’ il frutto di una sempre impressionante di fallimenti. L’ultimo tentativo, quello del 4 dicembre, e’ stato condotto in forme piu’ eleganti delle altre ma forse anche piu’ pericolose. Spero si sia capito che servono leader diversi, capaci di mediare, di convogliare il consenso che l’Italia esprime in forme frammentate’.

Che differenza vedi tra i politici della prima Repubblica e gli uomini nuovi al potere oggi?

La preparazione politica e’ stata sostituita dalla comunicazione fine a se stessa. Di pari passo sono peggiorati i rapporti tra i rappresentanti politici. Di fronte a un problema economico, Palmiro Togliatti collaborava con la Dc, perche’ l’interesse del Paese veniva prima di tutto. Oggi non si riesce a trovare una visione comune nemmeno all’interno del governo su una questione basilare come i vaccini’.

La sinistra, ‘diagnosi e cura’, verrebbe da dire.

‘E’ diventato di moda parlare del tramonto della sinistra. Ma la sinistra non tramonta mai perche’ coincide con gli interessi del popolo. Il Pd oggi non rappresenta piu’ quelle istanze. E’ diventato il partito di una parte degli italiani, della borghesia piu’ agiata, come dimostra il fatto che vince solo nel cuore borghese delle citta’. E il suo gruppo dirigente sembra ispirarsi alla Dc provinciale di un tempo. Quanto al Movimento Cinquestelle, deve capire che le istituzioni vanno messe al riparo sempre. Non possono diventare oggetto di contesa tra le parti. E non puo’ limitarsi solo a indicare le mostruosita’, che pure esistono. Deve sempre indicare le soluzioni’.

‘A chi sta a sinistra del Pd, tocca invece un’impresa non facile, quella dell’unita’. D’Alema, Bersani, Fratoianni, Pisapia e gli altri mettano da parte le ambizioni di parte, se vogliono dare voce a un popolo che chiede di essere rappresentato’.

Il consiglio ai giovani

Infine, i giovani. Sembrano indifferenti alla politica. ‘E’ falso. Sono colti. Piu’ di quanto lo fossimo noi. Ma noi avevamo una prospettiva, che a loro manca’.

‘I ragazzi che dal mezzogiorno emigrarono al nord e all’estero sapevano di trovare risposte ai loro bisogni. Oggi, con le percentuali di disoccupazione che conosciamo, passano da una situazione di precariato all’altra, a costo di sacrifici e privazioni che spesso bruciano ambizioni e sogni. L’essenziale e’ tenere la testa alta e la schiena dritta. Non farsi mortificare. Ribellarsi quando serve. C’e’ stata una lunga retorica sui gufi, tesa a screditare chi segnalava un problema. In metafora vorrei dire ai giovani di non temere i gufi, ma gli avvoltoi. E di non fare gli allocchi. Perche’ quando in questo paese si sono saldati il potere degli avvoltoi e il consenso degli allocchi, non sono venute cose buone’.

di Alfonso Raimo, giornalista professionista

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