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Podemos esce più forte dalle assise in cui era entrato diviso

Il “presidenzialismo” della dirigenza allontana i viola dallo “spirito” del 15M, attira dure critiche dalla società e spinge anche la base stretta attorno al leader a chiedere a gran voce di lavorare per l’unità

Pubblicato:15-02-2017 12:47
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 10:54

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di Ettore Siniscalchi *per www.ytali.com

Pablo Iglesias ha vinto nettamente il secondo congresso di Podemos. La sua lista domina il “parlamentino” del partito, il suo documento congressuale trionfa tra i quattro presentati, si conferma segretario generale con l’89 per cento dei voti.

Vistalegre II (dal nome del quartiere madrileno che ospita la struttura che accoglie le assise) è stata la prova più difficile per i viola, in cui il futuro stesso della formazione è stato in forse. Una prova dalla quale Podemos è uscito meglio di come era entrato — ma alla quale era giunto molto male — e che non scioglie i nodi politici che proiettano ombre sul futuro della formazione. È stato raccontato come uno scontro tra pragmatici e radicali, una divisione sul rapporto col Psoe e le altre sinistre, ma è stato qualcosa di più: il punto d’arrivo della prima vera crisi del partito che, come altre sinistre europee, cerca risposte alla crisi della democrazia e alla mancanza di progetto della politica. E, quindi, la crisi di quella risposta.


Nel primo Vistalegre, due anni e quattro mesi fa, Podemos era un magma cui dare forma. Cinque inattesi eurodeputati, alcuni account sulle reti sociali, migliaia di circoli sparsi per la Spagna, la scommessa, e la speranza, di dare rappresentatività politica alla domanda di partecipazione che veniva dalle piazze degli Indignados, che dicevano dei partiti classici “Non ci rappresentano”.

Nacque un partito verticale, una macchina fatta per vincere le elezioni politiche. Vennero prima le regionali, Podemos era impreparato ma la domanda di cambiamento era tanto forte da fargli conquistare — non da solo ma costruendo alleanze locali con realtà spesso molto più ampie — alcune delle città più importanti, su tutte Madrid e Barcellona. Col voto nazionale non è arrivato il sorpasso sul Psoe ma oltre cinque milioni di voti. Il fallimento delle trattative per un governo col Psoe, la ricerca del sorpasso col secondo voto, sono stati scontati nel secondo passaggio elettorale, incrinando anche il rapporto con liste alleate catalane e valenziane, più urgentemente interessate a cambiare segno al governo del paese che a inseguire l’egemonia a sinistra.

Il gruppo di amici e studiosi della politica che ha creato Podemos si è diviso, con rotture politiche e personali, su tutte quella tra Iglesias e il numero due Iñigo Errejón— e la ferocia nel confronto propria di chi prima condivideva amicizia. La frenetica rapidità del processo ha il suo peso. Quattro anni che hanno sconvolto la Spagna e catapultato quel gruppo dal nulla al centro della scena, bersaglio della guerra, anche sporca, fatta dai media e altri poteri.

Gli scontri sono diventati rese dei conti, opportunisti e ambiziosi si sono fatti largo, e, da chi ha visto con favore l’ascesa dei viola, si son levate durissime critiche. È stato denunciato il settarismo, proprio degli epigoni del comunismo spagnolo, lo spettacolo dei maschi alfa che lottano per il potere, il caudillismo, il tradimento delle aspirazioni degli Indignados. Si è arrivati a dire “Non ci rappresentano”, nemesi del percorso di quel gruppo dirigente.

 

Podemos è arrivato al secondo Vistalegre in queste condizioni. Ma la vittoria di Iglesias non sancisce l’irreversibilità della crisi di Podemos — anche se non la risolve. Il congresso ha mostrato l’enorme capacità di mobilitazione viola. Quindicimila persone hanno dibattuto due giorni, oltre centocinquantamila hanno votato su Internet, la macchina organizzativa è stata perfetta. La militanza è convinta e vede in Iglesias il leader. Podemos sembra avere una risorsa maggiore dei limiti della sua dirigenza. Ha catalizzato la volontà di partecipazione che caratterizza la crisi della politica come si è manifestata in Spagna rispetto ad altri paesi. Un capitale umano di mobilitazione, non inquadrato ed esigente nel farsi sentire. Iglesias ha trionfato ma il corpo che lo riconosce come leader ha quasi intimato ai dirigenti l’unità — e, del resto, i quadri di maggior valore del partito stanno ancora maggioritariamente con Errejón.

L’opinione pubblica favorevole a Podemos, il bacino elettorale a cui si rivolge, non ha (ancora?) levato la fiducia all’esperienza ma non ha remore nell’esprimere le sue critiche, che vivono nel vivacissimo mondo della stampa on-line spagnola. I nodi politici restano — su tutti il verticalismo accentuato, il rapporto col Psoe e la gestione dei nuovi equilibri interni — ma Podemos non è stato travolto da Vistalegre II. Iglesias ha voluto mostrare di aver recepito il messaggio: “Grazie per ricordarci che per essere utili dobbiamo essere umili. Avete votato un Podemos plurale, più femminile, fraterno e unito”, ha detto in chiusura. Se davvero è così lo vedremo presto, o partiranno le purghe o si faranno passi concreti per l’unità.

 

Podemos si conferma intanto come l’unica vera elaborazione populista europea. Non quella parola-feticcio nella quale pigramente si ingloba ogni opzione politica suppostamente anti establishment — dai Cinque stelle al Front national francese per arrivare a Trump (come se il governo Usa di banchieri, petrolieri e militari possa essere considerato tale) — per non dare conto del carattere cripto-fascista o prodromico del fascismo di quelle esperienze politiche (fascismo è parola che, a quanto pare, non sta bene pronunciare nel dibattito pubblico), né il ruralismo para socialista pre-sovietico, che fu all’origine del termine, ma quella riflessione politica nata in America latina e alla quale si sono applicati filosofi come gli argentini Ernesto Laclau e Enrique Domingo Dussel, confrontata nell’elaborazione della dirigenza di Podemos coi concetti gramsciani di egemonia e di costruzione nazional-popolare (curiosamente a un altro fenomeno che origina in quelle esperienze politiche, il “giustizialismo”, è toccato di essere stravolto nel lessico politico contemporaneo italiano).

Il populismo di Podemos probabilmente è un limite, nella dicotomia alto/basso che sostituisce quella capitale/lavoro (certamente in crisi con la mutazione in atto delle due realtà e della loro relazione). Ma il contesto spagnolo impedisce l’affermarsi della (anche qui supposta) dicotomia diritti/bisogni come descrizione della deriva della sinistra europea, che già comincia a elaborare certo operaismo italiano di nobili ascendenze alla Mario Tronti — anche se in maniera ben più nobile dell’elaborazione, ormai rosso-bruna, omofoba e nazionalista, del comunitarismo sovranista rappresentata con maggiore visibilità dal filosofo-di-successo Diego Fusaro nel suo seguire la traccia di Costanzo Preve — . Ma è comunque un tentativo di rispondere alle domande che le sinistre europee, vecchie e nuove, più o meno moderate, si pongono: dove si sono persi di vista la sinistra e il suo popolo, e dove si rincontrano?

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