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E se la democrazia occidentale ricominciasse dalle città?

di *Roberto Ellero per www.ytali.com  Alzi la mano chi è in grado di citare il

Pubblicato:13-11-2017 14:17
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:53

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di *Roberto Ellero per www.ytali.com

 Alzi la mano chi è in grado di citare il nome di uno statista svizzero, passato o presente. No, Gugliemo Tell non vale… In compenso tutti sanno quanto siano frequenti nella confederazione elvetica gli appuntamenti referendari, con i cittadini chiamati a dire la loro sui principali temi di interesse pubblico. Sono strumenti di democrazia diretta e gli svizzeri non hanno atteso l’avvento del digitale per farne uso.

Qualcosa di simile anche a Singapore, dall’altra parte del mondo, dove la governance della piccola repubblica (pienamente indipendente dal 1965, cinque milioni di abitanti) si avvale di continue consultazioni presso la cittadinanza, o presso sue significative campionature, per l’assunzione delle decisioni riguardanti questo o quel problema, questo o quel progetto. Ed entrambe, Svizzera e Singapore, peraltro notoriamente appetite anche dai grandi capitali per la discrezione bancaria e per le forti agevolazioni fiscali, figurano in testa alle classifiche mondiali di benessere e ricchezza, innovazione e sviluppo, stabilità e sicurezza.


Sono democrazie parlamentari multipartitiche, rispettose del libero mercato ma tutt’altro che allergiche agli interventi pubblici, rivendicati come indispensabili nei settori della pianificazione, degli investimenti e del welfare. Raramente si parla di loro, paiono e forse sono democrazie “noiose”. La noia come indicatore di democrazia. Vuoi mettere la nostra “vivacità”…

Piccolo è meglio. Detta così, una banalità. Ad uso e consumo di chi – più d’uno di questi tempi – reclama il sovranismo anche per il proprio condominio. A dirla altrimenti, con ben più fondate e articolate argomentazioni, è Parag Khanna, in libreria con La rinascita delle città-stato. Come governare il mondo al tempo della devolution (Fazi Editore, traduzione di Franco Motta), che fa seguito ad una precedente trilogia (I tre imperi, 2009; Come si governa il mondo, 2011; Connectography, 2016) di cui è compendio e (momentanea) conclusione.

Parag Khanna
L’autore è definito stratega geopolitico, un quarantenne nato in India, vissuto in parecchi paesi anche europei, attualmente a Singapore. È autore di fama internazionale e ottimo relatore. L’abbiamo ascoltato a Palazzo Franchetti di Venezia, qualche settimana fa, ospite del gruppo indipendentista Siamo Veneto, che siede in Consiglio regionale e con cui mostra una certa dimestichezza. Assertivo ma con adeguato spirito critico, così “sinceramente democratico” da ritenere che non ci sia ricetta migliore che indicare impietosamente limiti e derive degli odierni ordinamenti democratici occidentali per salvaguardare l’essenza e la sostanza stessa della democrazia. Senza nascondere le antipatie:

Attualmente gli Stati Uniti sono molto più un esempio di degenerazione politica che di buona governance. Molti intellettuali celebrano il teatro della politica come se fosse l’ncarnazione di quella democrazia civica tanto esaltata da Tocqueville, ma in realtà la democrazia non è un fine in sé: i veri obiettivi sono una governance efficace e il miglioramento del benessere della nazione. Oggi, quello che Platone aveva già previsto nella sua articolazione della scala dei regimi politici si sta avverando: la democrazia è solo la penultima fase della loro degenerazione. Dopo di essa, la tirannia…
Svizzera e Singapore, come s’era intuito e offshore a parte, tornano spesso nelle argomentazioni di Khanna, a suo dire parametri virtuosi – nel loro possibile combinato – di una democrazia tendenzialmente partecipativa, fondata su un ampio decentramento delle funzioni amministrative e sulla fiducia accordata alle istanze tecnocratiche, in quanto portatrici di una conoscenza puntuale, non asservita agli interessi di questo o quel partito, di per sé già foriera di possibili soluzioni pratiche. Non ciò che è giusto (in astratto) o che è bello (in assoluto), piuttosto ciò che è utile, (nell’immediato e in prospettiva) per la generalità dei cittadini.

Il modello – se uno ce n’è – è dunque piuttosto quello della “tecnocrazia diretta”, dove gli input della politica consapevole (non ingannevole, perché desunta dall’ascolto e dalla consultazione) si tramutano in output coerenti e conseguenti. Chi l’avrebbe detto. Basti pensare alla scarsa reputazione che i tecnocrati (Bruxelles, per non andare troppo distanti) vantano qui da noi. Inutile aggiungere, poi, che tutto ciò mal si combina con il centralismo. Specie quello dei vecchi stati-nazione, unitari o federali che siano, macchinosi nelle diagnosi e spesso rovinosi nelle prognosi, gelosi delle loro prerogative e dei loro confini mentre il mondo corre veloce in rete, sul piano della finanza come su quello della comunicazione, volentieri neoliberista ad oltranza, infischiandosene dei pareri “nazionali” e delle frontiere.

Infatti, nell’Occidente democratico che conosciamo, gli stati-nazione mostrano parecchie crepe: finanza versus politica, esecutivi imbelli, parlamenti settari, con continui cambi di casacca, crisi di rappresentanza, improvvise svolte epocali senza piena consapevolezza (la Brexit, per dire), partiti votati al populismo ed elettori tentati dal fascino malefico degli uomini forti, con il conseguente dilagare degli istinti autocratici. La tirannia, appunto, senza i “Guardiani” di Platone.

Giorni fa, in un reportage da Barcellona, la Repubblica ricordava come gli esecutivi di Spagna e Catalogna, con i socialisti Zapatero e Maragall, fossero sul punto di varare nuove regole di convivenza, con un Estatut maggiormente rispettoso delle istanze catalane, specie in materia fiscale, sul modello basco per intenderci. Poi arrivò Rajoy, che manco si prese la briga di darci un’occhiata, cestinando quell’accordo. Con il risultato di alimentare un indipendentismo sino ad allora largamente minoritario, poi cresciuto sino a sfociare nelle vicende delle settimane scorse, momentaneamente tamponate con un pugno di ferro di stampo centralista, che non ha potuto non rievocare la repressione franchista.

Non sappiamo come andrà a finire. Comunque vada e malgrado l’Unione Europea si sia schierata con il governo spagnolo in difesa della “legalità”, l’intera vicenda resta come minimo imbarazzante, il segnale di un esecutivo che non sa affrontare le sue emergenze, se non in chiave autoritaria. Mentre il parlamento spagnolo – socialisti compresi – tace.

Se la Storia ha ancora un senso, essa insegna che le grandi civiltà antiche (i Sumeri come l’Atene di Pericle), i grandi imperi (quello romano d’Occidente e poi d’Oriente, infine ottomano), i grandi stati-nazione (Francia, Inghilterra), per non dire della Lega Anseatica o delle nostre Repubbliche di Venezia e Genova, nascono intorno alle fortune di una grande città. Città che non casualmente nell’Italia del tardo medioevo assunsero il nome di “Comuni”, secondo una fortunata terminologia che arriva sino ai giorni nostri. E oggi sono le città, le metropoli, secondo Khanna, opportunamente interconnesse tra loro, ad avere la maggiori chance per competere nella devolution imposta dalla globalizzazione.

Gli stati più accorti, al di là del loro tasso di democraticità (la Germania della signora Merkel e il Canada di Trudeau, da un lato, la Cina di Xi Jinping dall’altro), mostrano di esserne coscienti, assecondando un quadro di autonomia più accentuata e di consultazione che persino l’impero celeste post maoista – non certo un esempio di democrazia, partito unico e diritti civili zero, pur sempre la potenza per eccellenza del nuovo millennio – si sforza di perseguire. E noi? L’Europa? La nostra sinistra? Si parla spesso di Altiero Spinelli e del Manifesto di Ventotene, minimizzando l’accento fortemente federalista di quella “costruzione” europea. E dopo le sortite lungimiranti di Cacciari, risalenti agli anni di Miglio e della prima Lega, il tema delle autonomie, a sinistra, sembra sparito dai radar, sin troppo presente – in compenso – negli ambiti indipendentisti dei vari sovranismi locali, con tutti i rischi che comporta certo isolazionismo.

Se si capiscono le difficoltà concettuali di chi è pur sempre cresciuto nella disciplina del centralismo democratico, una maggiore laicità di analisi e di proposta s’imporrebbe laddove i principi del decentramento pur vantano buone radici. Occorrerebbe tornare a coltivarli, quei principi, opportunamente rivisti e aggiornati, raddrizzando fughe altrimenti deleterie e mantenendo ben saldi, almeno a sinistra, i criteri dell’equità sociale e della dovuta sussidiarietà. Altrimenti – per dirla con il pensiero di Khanna – il rischio di restare tagliati fuori è forte.

*Veneziano, Roberto Ellero è stato direttore del settore Cultura-Turismo del Comune di Venezia fino all’agosto del 2016. È stato direttore del periodico “Circuito Cinema”. Giornalista e critico cinematografico, collabora con quotidiani e riviste. Ha all’attivo numerose pubblicazioni, fra cui lavori monografici su André Delvaux, Sidney Lumet, Martin Ritt, e Simenon al cinema. In ambito storico, è autore del volume “Giuseppe Compagnoni e gli ultimi anni della Repubblica di Venezia”.

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