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Cosa ci racconta il viaggio di Donald Trump in Asia?

di Gianluca Pastori * per mentepolitica.it Cosa ci racconta il viaggio di Donald Trump in Asia

Pubblicato:13-11-2017 14:07
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:53

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di Gianluca Pastori * per mentepolitica.it

Cosa ci racconta il viaggio di Donald Trump in Asia riguardo alla posizione dell’attuale amministrazione USA nella regione? Non è una domanda senza importanza. Le mire nucleari della Corea del Nord, che negli ultimi mesi hanno condotto a una escalation verbale guardata con timore da più parti sono solo l’ultimo dei punti di una agenda che lo stesso Trump, soprattutto nei mesi della sua campagna elettorale si è preoccupato di infoltire. La sua retorica ‘neo-isolazionista’ ha alimentato i timori di alleati storici come il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan. La telefonata del neo-eletto Presidente proprio con il suo omologo taiwanese ha prodotto, lo scorso dicembre, più di una fibrillazione negli ambienti diplomatici per la possibile risposta di Pechino a un segnale che poteva suonare sconfessione dell’ormai consolidata ‘one China policy’. Egualmente, fonte di fibrillazione sono state le accuse che Trump ha più volte diretto alla politica economica e monetaria di Pechino e il passo indietro fatto sulla Partnership transpacifica (TPP), lo strumento che il suo predecessore, Barack Obama, aveva elaborato non senza fatica per consolidare la posizione di Washington nella regione pur di fronte a un suo disimpegno militare, peraltro più apparente che reale. Se a ciò si aggiunge la tendenza che sembra emergere anche in questo scacchiere verso un progressivo irrigidimento delle politiche di sicurezza di tutti i maggiori attori si comprende come siano molti i nodi da sciogliere per un Presidente che – anche per il suo profilo enfaticamente ‘sopra le righe’ – incontra più di un problema a presentarsi come un interlocutore concerto e affidabile.

Che qualcosa, nel mondo dell’Asia/Pacifico, stesse cambiando lo si poteva forse intuire dietro lo ‘smarcamento’ del Presidente filippino, Rodrigo Duterte, dalle posizioni filo-americane dei suoi predecessori e dietro le sue avances alla Cina per una composizione amichevole delle questioni territoriali che dividono i due Paesi; avances che assumono un rilievo ancora maggiore se si tiene conto del giudizio favorevole a Manila espresso dal Tribunale arbitrale de L’Aia sul tema della c.d. ‘nine-dash line’. Da questo punto di vista, l’ostilità ostentata da Duterte nei riguardi di Washington non era che la versione ‘teatralizzata’ (in linea con il profilo del personaggio) di un sentimento esistente anche in altri Paesi ed emerso, ad esempio, in occasione dei test nordcoreani del 2013. In tale occasione, sia Tokyo che Seoul avevano protestato per l’atteggiamento (ritenuto troppo cauto) tenuto da Washington e avevano manifestato i loro timori per il ruolo che quella ‘debolezza’ lasciava a Pechino e alle sue ambizioni egemoniche. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca la situazione non si è chiarita. L’incontro del premier giapponese Abe con il Presidente eletto, nel novembre 2016, ha sollevato non poche perplessità dato che il Giappone (come la Cina), nei mesi precedenti, era stato fra i bersagli degli attacchi di Trump in tema di concorrenza e TPP. D’altra parte, il gesto è stato visto anche come un tentativo di mantenere in piedi un dialogo transpacifico di cui – nonostante le tensioni – proprio Abe era stato uno dei principali fautori. L’incontro di Mar-a-Lago con il leader cinese Xi Jinping, nell’aprile successivo, avrebbe confermato come, fuori dalla retorica, la nuova amministrazione continuasse a riservare un posto di rilievo all’Asia/Pacifico e al dialogo con i suoi Stati, compresa la Repubblica Popolare Cinese.
Da quest’ottica,non stupisce che Trump, in questi giorni, si sia sforzato di riaffermare il ruolo di Washington quale ‘grande protettore’ dei suoi alleati asiatici, insistendo prima di tutto sugli impegni assunti nel settore militare. Nonostante i vincoli di bilancio – che non sembrano essere stati superati dalla nuova amministrazione, almeno nel suo primo anno fiscale – le forze armate USA schierano contingenti significativi tanto in Giappone (circa 40.000 uomini) quanto nella Corea del Sud (circa 35.000 uomini), senza contare i circa 4.000 uomini di stanza a Guam e i 40.000 di stanza nelle Hawaii. Se si aggiunge a ciò una presenza navale (Settima flotta) e area egualmente significativa, si capisce come – volenti o nolenti – gli Stati Uniti siano ancora un elemento importante dell’equazione strategica regionale. Tuttavia, i termini della questione sono più complessi. Più che alla dimensione militare, l’attenzione dei partner di Washington si rivolge, infatti, ad aspetti più ‘soft’ del loro rapporto, legati da una parte ai punti dell’interdipendenza economica, dall’altra al crescente peso politico di Pechino in quella che essa pare ormai considerare una sua sfera di influenza. Si tratta di aspetti intorno cui – nonostante i toni rassicuranti con cui il Presidente si è rivolto ai suoi ospiti – non pare essere stato ancora trovato un vero consenso. Ancora di più, si tratta di aspetti rispetto ai quali un riavvicinamento fra Trump e Xi come quello che è parso emergere nei loro incontri non può che alimentare le paure di quanti, da un’effettiva convergenza fra USA e Cina, rischierebbero di vedere messa in gioco la propria tradizionale rendita di posizione geopolitica.


* Gianluca Pastori è Professore associato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

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