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L’Obamafobia di Trump. Ossessione o calcolo politico?

di Guido Moltedo per www.ytali.com Povero Donald Trump. Va anche capito. Essere il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, dopo il quarantaquattresimo di nome Barack Obama, è proprio dura

Pubblicato:13-03-2017 15:40
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 11:00

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di Guido Moltedo per www.ytali.com

Povero Donald Trump. Va anche capito. Essere il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, dopo il quarantaquattresimo di nome Barack Obama, è proprio dura. Tanto più che Obama ebbe la “fortuna” di seguire il presidente più impopolare della storia moderna statunitense, George W. Bush. Anche per questo la stella del primo presidente nero, specie alla sua alba, brillò ancora più intensamente. Povero Donald.

Tanto più che il suo ultimo predecessore non è solo un fantasma del passato. Barack s’aggira nella capitale, a pochi isolati dalla Casa Bianca. La famiglia Obama ha preso casa a Kalorama, nel quadrante nord della capitale, e l’ex presidente ha già predisposto, con la fedelissima consigliera Valerie Jarrett, i suoi uffici nella sede del WWF, a un paio di chilometri dalla sua residenza. Su Fox News, la super trumpista Meghan McCain ha definito la sede dell’ex-presidente “il quartier generale della resistenza”.


L’ossessione di Trump nei confronti di Obama è diventata uno dei tratti salienti del nuovo presidente e dei suoi collaboratori, il che non fa che alimentare la sensazione stessa che è alla base di quest’ossessione, e cioè che egli per primo si senta un occupante abusivo della Casa Bianca. E che la sua inadeguatezza e incapacità a rivestire il ruolo di presidente risultano ancora più evidenti in rapporto e in confronto al suo predecessore.

Predecessore ma oggi competitore politico. Uscendo di scena a 55 anni, non trascorrerà certo le sue giornate solo giocando a golf o occupandosi della biblioteca presidenziale a lui intitolata in allestimento a Chicago, ma continuerà a fare politica, ed è già in pista, e sarà a forza di cose una sorta di presidente ombra.

Un’ossessione, in Trump e nei suoi accoliti, destinata dunque diventare paranoia. E non è psicologismo, come dimostra il continuo chiamare in causa la precedente amministrazione in ogni sorta di complotto ai suoi danni, e anche come mandante delle manifestazioni anti-Trump che si moltiplicano in America. Un astio illuminato dall’infantile compiacimento di The Donald per i recenti dati positivi dell’economia che egli ovviamente ascrive a suo merito, essendo entrato in carica neppure un paio di mesi fa.

L’“Obamafobia”, per dirla con Edward Luce del Financial Times, è di lunga data, risalendo ai primi tempi della presidenza Obama, quando Trump guidava e finanziava il movimento che contestava la veridicità del certificato di nascita di Barack a Honolulu e sosteneva che fosse nato in Kenya, mettendone in discussione il titolo fondamentale per essere presidente, che è la nascita in America. È, quello, un capitolo semplicemente vergognoso della recente storia americana, un movimento che avrebbe dovuto essere preso molto più seriamente, da Obama stesso, essendo stato l’incubatore principale dell’ondata reazionaria e razzista che avrebbe spinto Trump verso la presidenza.

Ma ci sono anche altre spiegazioni più politiche, se non si vuole ripiegare nella psicopolitica, che pure ha una sua dignità.

Concentrando l’offensiva contro Obama, Trump cerca di togliere di mezzo l’unico temibile oppositore oggi sulla scena. Il Partito democratico è in minoranza al Congresso e in gran parte delle istituzioni legislative e governative degli Stati Uniti. È nelle condizioni peggiori dagli anni Venti. Non ha leader di peso, né della vecchia guardia né nuove leve. Il Partito repubblicano ha i numeri per ridisegnare a proprio vantaggio i collegi elettorali per la camera dei rappresentanti. Può insomma costruire una “permanent majority” che mette all’angolo di democratici per decenni a venire.

Solo Obama può – allo stato attuale – essere il punto di riferimento di quella che giustamente Meghan McCain definisce la “resistance” a quest’amministrazione.

Impegnandosi nella campagna elettorale per Hillary, Obama disse che lo faceva perché fosse tutelata e proseguita la sua eredità politica, mettendo ben in chiaro che, con Trump, non solo il suo programma sarebbe stato rovesciato ma il senso stesso del sussulto democratico – trascendeva la sua persona e il suo programma – che aveva consentito la sua elezione e poi la rielezione.

È chiaro che l’ex-presidente s’impegnerà perché tutto ciò che egli ha costruito, e soprattutto quel che sottende e significa il suo doppio mandato, non siano mandati al macero. Vedremo come lo farà, ma prima ancora che trovi la strada per mettere in pratica il suo impegno diretto, impresa inedita per un ex-presidente, Trump si scatena per impedirglielo. La sua, a ben vedere, non è un’ossessione. È una meditata e calcolata operazione politica per togliere di mezzo Obama.

*Guido Moltedo

Un quarto di secolo a il manifesto, con cui attualmente collabora, una lunga e istruttiva parentesi come direttore della comunicazione del Comune di Venezia, poi diversi anni a Europa, piccolo ma eccellente quotidiano. Autore di saggi e di biografie, tra cui “Obama, rockstar della politica americana”.

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