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Sesto, il dramma di Alì: “Morto per salvare i documenti”/VIDEO

Lo sfogo dei suoi amici: "Non abbiamo un lavoro vero, per sopravvivere siamo diventati schiavi dei cinesi per 2,5-3 euro l'ora"

Pubblicato:12-01-2017 13:49
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 10:47

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FIRENZE – Alì Muse, l’uomo di 44 anni di origine somale “è morto per salvare i documenti per il ricongiungimento familiare con la moglie e con la figlia, oggi in Kenya”. Mohamed Alì della Sierra Leone, da circa 10 anni in Italia, questa notte è scampato al rogo nel capannone-dormitorio di via Avogadro, a Sesto Fiorentino, nell’ex mobilificio Aiazzone abbandonato. Quei pochi fogli, il lascia passare al bene più prezioso, per cui “si è speso per oltre due anni: per la figlia gli hanno chiesto anche il test del Dna“, racconta sempre Alì che, davanti alla prefettura di Firenze, con i giornalisti da una parte e gli agenti in assetto antisommossa dall’altra a far scudo al portone di palazzo Medici Riccardi, si sfoga. “Abbiamo cercato di trattenerlo, ma è rientrato“. Altri, nella sua stessa condizione, “lo hanno seguito. Lui però non ce l’ha fatta”.

Il racconto è concitato, con la rabbia che si mescola al pensiero di quei momenti drammatici. “C’erano le fiamme, abbiamo chiamato i vigili del fuoco. Abbiamo portato via donne e bambini“; una settantina infatti, secondo quanto riferito dal Comune di Sesto, occupavano abusivamente lo stabile abbandonato. “Ma poi il fumo ha invaso tutto. Io per portare la gente fuori mi sono sentito male”. Fin qui il racconto di una notte indelebile, fino a che Alì si scaglia contro chi, “negli ultimi due anni ci ha abbandonato. Ci toglievano la luce, l’acqua. Abbiamo chiesto aiuto, un bagno, ma nessuno ha fatto nulla. Oggi qui parlano tutti di noi, ma dove erano prima“.

Dalla Sierra Leone all’Italia con lo status di rifugiato, poi il giro d’Europa e per i patti di Dublino di nuovo in Italia. Non in via Slataper, a Firenze, ma nell’occupazione di viale Guidoni. Poi a Sesto. “Facciamo lavoretti, vendiamo borse, ma non abbiamo una casa, un lavoro vero. Non riusciamo ad integrarci”. Così Alì muove l’accusa più forte: “Per sopravvivere- e quasi urla- siamo diventati schiavi dei cinesi per 2,5-3 euro l’ora. Ma non me la prendo contro i cinesi perché loro sono diventati per primi gli schiavi degli italiani”. La rabbia Alì la riversa sulle istituzioni: “Dove sono i nostri diritti umani“, quelli “garantiti per i rifugiati. La verità che fanno interessi con noi, con i soldi che prendono per prendersi cura di noi. E poi raccontano balle, con gli italiani che ci odiano perché credono che siamo qui a rubare il lavoro”. Alì torna in corteo, ma ora preferisce “morire prima di tornare in quelle ‘case'”.


di Diego Giorgi, giornalista

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