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Aborto, odissea a Roma… poi un ‘angelo’: la storia di Viola

In occasione della Giornata Internazionale della Donna l’agenzia di stampa Dire ha deciso di dedicare uno speciale ai quarant’anni della legge 194 sull’aborto.

Pubblicato:08-03-2018 12:27
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 12:35

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In occasione della Giornata Internazionale della Donna l’agenzia di stampa Dire ha deciso di dedicare uno speciale ai quarant’anni della legge 194 sull’aborto.

ROMA – “‘Guardi signora, il suo bambino potrebbe non sopravvivere alla prima settimana di vita. Oppure lei potrebbe arrivare all’ottavo mese di gravidanza e non poterla portare a termine. Quando ti dicono queste parole tu cosa puoi fare?'”. Non riesce a darsi pace Viola (il nome è di fantasia, ndr), 43 anni, appassionata maestra di asilo nido, tre aborti in due anni, di cui due spontanei. Ad otto mesi dall’interruzione terapeutica di gravidanza i suoi occhi stanchi si riempiono ancora di lacrime. Di dolore, per quel bimbo tanto desiderato, che non è riuscito a salvare perché affetto da sindrome di Down e sindrome di Edwards. E di rabbia, per il senso di solitudine provato al momento della diagnosi e la poca assistenza ricevuta una volta comunicata la sua scelta al personale medico che aveva effettuato l’amniocentesi.

Una scelta obbligata

Una scelta obbligata, quella di Viola e suo marito Daniele (il nome è sempre di fantasia), “perché siamo grandi” e, pure se fosse sopravvissuto, “chi avrebbe garantito l’assistenza e l’affetto a nostro figlio quando noi saremmo venuti a mancare?”. “Ero alla 17esima settimana ed avevo già deciso con mio marito che, in caso di gravi malformazioni, avrei interrotto la gravidanza. La notizia è stata una doccia fredda– racconta Viola- Era giugno, faceva molto caldo, mi hanno chiamato dal Villa San Pietro di Roma per dirmi di recarmi a ritirare il referto dell’amniocentesi perché era stata trovata un’anomalia nel feto“. A quel punto la giovane maestra d’asilo telefona alla ginecologa che la segue privatamente. Una, due, tre volte. Le scrive un messaggio: “Mi richiami, è urgente”. E intanto comunica la sua decisione di interrompere la gravidanza ai dottori del nosocomio romano.

Nessuna informazione precisa

“Alcune pazienti vanno al San Camillo, alcune al San Giovanni. Veda lei”. Tutto qui. “Mi aspettavo che mi dicessero: Non si preoccupi signora, ci pensiamo noi a metterla in contatto con qualcuno”. E invece nessuna indicazione precisa, nessuna presa in carico. “Io e Daniele eravamo smarriti, spaventati. Ho richiamato la mia ginecologa che mi ha detto di provare al San Camillo”. Alle quattro di pomeriggio Viola e Daniele saltano in macchina, direzione San Camillo Forlanini, dall’altra parte di Roma. Il parcheggio dell’ospedale è deserto, il padiglione della 194 chiuso. La coppia si dirige verso il Pronto soccorso dove incontra un’infermiera che viene informata della situazione. Il padiglione 194 è aperto solo di mattina. “‘Di quante settimane è?’, mi chiede l’infermiera. ’17’, le rispondo. E lei: ‘Signora deve tornare domani, deve fare il colloquio con lo psicologo e aspettare. Noi abbiamo solo due posti letto’. ‘Ma io sono già di 17 settimane!’, ribadisco smarrita. E lei risponde con una frase che non dimenticherò mai: ‘Ma signora, noi facciamo arrivare anche fino alla 24esima!’. Io non sarei mai arrivata alla 24esima settimana. Piuttosto mi sarei tolta la vita”.


A quel punto, Viola decide di richiamare la sua ginecologa che le consiglia di andare al San Filippo Neri l’indomani. Non se la sente di aspettare ancora, con la possibilità di ricevere un altro rifiuto. E si attiva per trovare una strada alternativa. “Sono riuscita ad ottenere grazie ad una conoscente il numero di un ginecologo non obiettore del Pertini, poi sono arrivata al Grassi di Ostia grazie ad una mia amica che mi ha indirizzato al consultorio di Colleferro. Lì, il medico si è attivato per mettermi in contatto con il dottor Mascellino, che pratica l’aborto terapeutico in quell’ospedale. Mentre la mia ginecologa nel frattempo era sparita e il Villa San Pietro si era preso i 700 euro dell’amniocentesi, che comunque è un esame rischioso per il feto, senza trovarmi una soluzione rispetto all’itg”.

Il nuovo viaggio di Viola

“Al Grassi di Ostia ho sentito accoglienza, affetto, coraggio, speranza- racconta- Tutte cose che non avevo sentito né dalla mia ginecologa, né da medici e infermieri di Villa San Pietro e San Camillo, che mi hanno abbandonata”. Dopo essere stata informata della procedura, Viola continua decisa nel suo percorso. Prende le prime pasticche per fermare il battito del feto. “È stato il momento più terribile per me, perché mi sono detta: Io sto fermando quel cuore”. E poi inizia l’attesa. “Non sapevo quando avrei potuto partorire, perché l’equipe si è dovuta riunire. Un’equipe composta da ginecologo, anestesista, ostetrica, tutti rigorosamente non obiettori”. Una settimana che Viola ricorda infinita: “La sera uscivo fuori al balcone e guardavo al di là della montagna, ferma come un vegetale. Non so dove ho trovato la forza per fare quello che ho fatto, forse perché ho avuto vicino Daniele, i miei genitori, le mie amiche”.

L’incontro con ‘il mio angelo’

Poi il ricovero e le pasticche di ossitocina per indurre le contrazioni. “Mi hanno detto che me le avrebbero somministrate fino a tre giorni. Se non si fosse aperto il parto mi avrebbero operato un cesareo ed asportato tutto, compreso l’utero”. Il parto, dopo molti dolori, si apre. Ed è in sala parto che Viola incontra Cristina, la sua ostetrica, che chiama “il mio angelo”: “È lei che mi ha fatto partorire. Ha rotto il sacco con una manovra interna, e poi mi ha detto di spingere, mentre mi accarezzava una gamba. Il feto è uscito subito, ma non l’ho voluto vedere. Poi non ricordo più nulla perché mi hanno addormentato. Al risveglio ho sentito la sua voce che diceva a Daniele che avremmo dovuto riprovarci e che voleva essere lei a farmi partorire”.

Il sostegno ricevuto

Da quel momento Viola è rimasta in contatto con Cristina e ha cominciato a farsi seguire da un ginecologo dell’ospedale di Ostia. Grazie al sostegno ricevuto dall’equipe del Grassi e dalla psicologa del consultorio di Colleferro sta lavorando sulle sue paure, perché “dopo un’esperienza del genere ti neghi tutto, di essere donna, di avere una maternità, ti senti sporca. Io avrei venduto la mia anima per salvarlo- racconta piangendo- il mio senso di colpa è stato proprio non aver trovato un modo per farlo. Perché una donna diventa madre dal momento in cui sa che è incinta“. A dicembre la giovane maestra d’asilo ha deciso di rimettersi in gioco con una nuova gravidanza, che si è interrotta spontaneamente alla sesta settimana, a metà febbraio. Nonostante tutto, sulla strada verso Ostia spiega di viaggiare felice: “Ho trovato persone che hanno abbracciato me e il mio dolore senza sapere chi ero. Questo significa essere umani, amare il proprio lavoro, amare la vita. Se non vado lì per qualche tempo mi mancano. Per molti i medici non obiettori sono medici della morte, ma non è così. Nessuna donna deve trovarsi nella condizione di trovare una soluzione quando non è in grado di farlo- alza la voce, con lo sguardo svuotato- Se c’è una donna che ti grida aiuto, tu non puoi chiuderle la porta in faccia, devi prenderla per mano e accompagnarla verso la sua scelta. Ad Ostia questo lo fanno. Ed io, nella sfortuna, ho avuto la fortuna di incontrarli”.

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