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Palestina, l’osservatore Falk (Onu): “A Hebron è apartheid”

Lo dichiara il giurista e professore dell'università americana di Princeton a circa un mese dal mancato rinnovo da parte delle autorità israeliane della Temporary International Presence in Hebron

Pubblicato:05-03-2019 16:53
Ultimo aggiornamento:17-12-2020 14:11
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ROMA – “In Palestina si può parlare di ‘apartheid’ in quanto la popolazione palestinese è segregata, subisce pressioni quotidiane all’interno del proprio luogo di origine, è vittima di discriminazioni e criminalizzazioni”: lo dichiara Richard Falk, giurista e professore dell’università americana di Princeton a circa un mese dal mancato rinnovo da parte delle autorità israeliane della Temporary International Presence in Hebron. La ‘Tiph’ era una missione internazionale di pace che, dopo l’attentato del 1994, si occupava di monitorare la situazione dei vicili, nell’ambito del conflitto tra palestinesi e israeliani nel territorio di Hebron, in Cisgiordania. 

Nella città abitano circa 200mila palestinesi e 800 coloni israeliani. L’esperto, che dal 2008 ha ricoperto il ruolo di relatore speciale per le Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori occupati, all’agenzia Dire ha illustrato l’attuale posizione dell’organizzazione: “Le Nazioni Unite si oppongono alla decisione del governo di non rinnovare il mandato agli osservatori internazionali a Hebron. La questione è stata discussa con le autorità, ma per equilibri interni – e il rinnovato sostegno degli Stati Uniti – sono rimasti fermi sulla loro posizione”.


Il funzionario Onu si dice convinto che spetti alla società civile “impegnarsi per difendere i diritti umani dei palestinesi, contrastando i fenomeni di criminalizzazione e discriminazione subita dai residenti. Perché- ribadisce Falk- il futuro della Palestina dipende dalla resistenza pacifica”.

L’auspicio del relatore speciale Onu è stato raccolto in questi giorni dalla società civile italiana, attraverso la campagna internazionale ‘Open Shuhada Street’ ideata da Assopace Palestina. Obiettivo: “dire no all’occupazione israeliana e agli insediamenti militari illegali a Hebron e in tutta la Palestina”, nonché ottenere la riapertura di Shuhada Street, la via principale della città, cuore dell’antico suq. Oggi, come denunciano gli attivisti, è vietata al transito dei palestinesi, che hanno dovuto abbandonare le attività commerciali. Possono soltanto attraversarla a piedi, e subiscono continui controlli militari. 

La campagna coincide con il 25esimo anniversario della strage che dette inizio ai problemi per gli abitanti di Hebron: il 25 febbraio 1994 il colono israeliano di estrema destra Baruch Goldstein aprì il fuoco contro i fedeli nella Moschea dei Patriarchi, uccidendo decine di palestinesi. Da allora le autorità hanno implementato politiche restrittive per evitare nuove tensioni tra palestinesi e israeliani. “Nella via dove abito ci sono ventidue checkpoint, trentuno sbarramenti ed hanno chiuso oltre mille negozi che un tempo erano gestiti da palestinesi” ha raccontato alla ‘Dire’ l’attivista Jannat Salayma, ventidue anni, originaria di Hebron, a margine dell’incontro. “Per fare visita a qualcuno si devono superare i checkpoint. Le autorità richiedono un permesso che può essere rilasciato anche dopo molti mesi. Dovreste venire a vedere, per capire cosa subiamo”, aggiunge la ragazza.  

La campagna internazionale si concluderà mercoledì 6 marzo alle 18 a Roma con la proiezione nel cinema Farnese del film ‘This is my land… Hebron’ di Giulia Amati e Stephen Natanson. 

Dopo il film avrà luogo il dibattito con i due residenti di Hebron, Jannat Salayma e Ahmad Azza. I due palestinesi sono membri del movimento non violento ‘Youth Against the Settlements’, ‘Giovani contro le colonie’ di Hebron.

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