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Caos Libia: in campo sì, ma senza truppe di terra

di Barbara Varchetta, (Pubblicista, esperta di Diritto e questioni internazionali)

Pubblicato:01-04-2016 17:44
Ultimo aggiornamento:16-12-2020 22:30

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di Barbara Varchetta (Pubblicista, esperta di Diritto e questioni internazionali)

Si è insediato a Tripoli, ormai da qualche giorno, il nuovo governo guidato dal premier Fayez Al Sarraj che, almeno secondo le intenzioni della comunità internazionale, dovrebbe rappresentare il primo passo verso la cosiddetta unità nazionale nonché traghettare il Paese dalla situazione di caos in cui è sprofondato da anni ad una condizione di stabilità.

Il neo primo ministro, però, non ha ancora ricevuto la benedizione dei due parlamenti che attualmente insistono sul territorio libico, inevitabile conseguenza di una guerra che dal 2011 divide la Libia in fazioni e che vede il governo di Tobruk, regolarmente eletto nel 2014, contrapporsi ai rappresentanti della precedente compagine parlamentare con sede a Tripoli, tanto da stimolare la ferma reazione dell’Unione Europea, costretta a ricorrere alle già minacciate sanzioni contro il Paese. La resistenza di entrambi gli schieramenti locali continua ad essere fortissima, le procedure di insediamento blindate e la guerra al terrorismo che la Libia aveva promesso rimane ancora senza alcun esito, necessitando dell’intervento di una coalizione internazionale che, per volere dell’Onu, potrà attuarsi soltanto a condizione che l’interlocutore istituzionale sia Al Sarraj.


Si sta lavorando da più parti affinchè il nuovo governo scalzi pacificamente gli oppositori (pare intanto che il premier del governo di Tripoli abbia lasciato la sua roccaforte, rifugiandosi a Misurata) e conquisti l’accettazione spontanea delle numerose tribù presenti nelle tre regioni, tuttavia fintanto che ciò non accadrà lo Stato Islamico continuerà ad avere la meglio, seminando distruzione in quei territori già martoriati dalla povertà e dall’assenza di democrazia.

Il rischio concreto è che si creino incontenibili scontri interni determinati dall’ostilità verso un governo etero-imposto, sinonimo del potere internazionale e, in quanto tale, inviso alle compagini più radicali; tutto ciò potrebbe finire con l’agevolare l’IS piuttosto che marginalizzarlo, facendo leva sul sentimento di appartenenza culturale e territoriale che oggi non è affatto forte (la Libia è smembrata in circa 140 tribù che chiedono, da anni, di poter essere rappresentate al governo) ma che potrebbe essere rivitalizzato proprio da un’azione esterna tanto invasiva come quella posta in essere dalla comunità internazionale quando ha imposto il nuovo esecutivo.

Occorre precisare, tuttavia, che non sembrano percorribili altre strade per raggiungere l’obiettivo dell’anelato equilibrio interno che potrebbe coincidere con una stabilità dell’intera area circostante e con un sostegno alle politiche antiterroristiche e di contenimento del fenomeno migratorio.

Del resto, l’avanzata degli uomini del califfato è stata agevolata dagli scontri interni al Paese e dal contestuale disinteresse dell’Onu e dell’Ue per la polveriera libica, letteralmente esplosa dopo la caduta di Gheddafi.

I timori che hanno indotto finora la comunità internazionale a non intervenire sembrano ormai svaniti ed i timidi tentativi di controllare quei territori vanno via via concretizzandosi.

L’auspicio è che non degenerino, come qualcuno ha già paventato, in attacchi frontali con l’impiego di truppe di terra, un errore strategico che potrebbe costare caro all’Europa, prima, ed all’intero Occidente, poi.

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